Mongolia: quattro fattrici Przewalski tornano a casa, nella steppa

Continua l’operazione di reintroduzione nella terra di origine dell’Equus ferus przewalskii: quattro fattrici provenienti da zoo di Finlandia e Svezia sono tornate nelle steppe di casa, per dare respiro genetico al gruppo di cavalli selvatici già presenti 

Takhin Tal, 19 luglio 2018 – Sono tornate in Mongolia, alla loro casa che non avevano mai ancora visto: si tratta delle sorelle finlandesi Helmi ed Hanna e le due svedesi Spes e Swiss Yanja,  fattrici di Equus ferus przewalskii provenienti da due zoo del Nord Europa che la primavera prossima incontreranno le loro colleghe già ambientate nella steppa di origine ed uno stallone di famiglia, così da variare un poco l’apporto genetico di questo nucleo di cavalli selvatici reintrodotti dal 2011 nella terra dalla quale l’uomo li aveva eliminati un secolo fa.

Un viaggio a ritroso nella storia fatto in aereo, sorvolando la Siberia, con il rumore delle eliche che copriva parole e pensieri degli uomini che le accompagnavano.

Le quattro rusticissime cavalle hanno manifestato qualche segno di insofferenza pestando zoccoli e sbuffando durante il volo, d’altronde è nota la resistenza di questi soggetti a qualsivoglia tipo di ammansimento: un secolo di allevamento negli zoo e numerose generazioni di puledri nati sotto il controllo dell’uomo non hanno scalfito per nulla la diffidenza violenta, per altro più che legittima, che questi cavalli selvaggi dimostrano da sempre verso l’uomo. 

L’ultima mandria selvaggia fu individuata nel 1879 dall’esploratore e naturalista di origine polacca Nikolai Przewalski, le popolazioni locali li chiamavano Taki, vagavano liberi sulle Montagne del Cavallo Giallo al confine con il deserto dei Gobi fino a che non vennero sterminati dalle popolazioni kirghise che ne ricavavano almeno pelli e carne, visto che non c’era niente da sperare in fatto di addomesticamento: una volta realizzato che ne erano rimasti pochissimi esemplari il Museo Zoologico dell’Accademia di Scienze Naturali di San Pietroburgo cominciò ad ospitare i sopravissuti, e la razza si è perpetuata in cattività sino ai nostri giorni.

Tutti i soggetti esistenti adesso discendono dallo stesso nucleo di una decina di individui, quindi la consanguineità è elevatissima: per questo lo Zoo di Praga, che li alleva dal 1932 e ha la responsabilità della tenuta del libro genealogico globale della specie ha individuato tra i 2400 esemplari che vivono nei vari zoo del mondo (che cooperano tutti al progetto)  queste quattro fattrici da aggiungere alla mandria di circa 50 esemplari che è stata reintrodotta nelle steppa di Takhin Tal, dove  nel 1969 è stato visto  l’ultimo esemplare selvatico.

Nonostante le differenze morfologiche e caratteriali che ne fanno un caso a parte tra gli equidi, e il fatto che rispetto a tutti gli altri il Przewalski possieda due cromosomi in più  quest’ultimo è l’unico a produrre ibridi fertili se incrociato con il cavallo: e chissà che questa non sia stata una delle cause del suo sterminio, vista la tendenza a inquinare geneticamente le mandrie di cavalli mongoli domestici con la propria indomabile progenie.

Tristissima la cronaca di una spedizione del 1901 organizzata da Falz-Fein per portare un certo numero di puledri negli zoo europei: ne catturarono 52 con gli uraks, le lacciaie mongole, dopo averli separati dalle madri, ucciso lo stallone che cercava disperatamente di proteggerli, e stremati facendoli galoppare a più non posso.

Ma non avevano di che sfamarne tanti: così dopo 50 giorni di cammino, il trasferimento in nave e in treno affiancati a giumente domestiche che dovevan fare da balia ai piccoli, disperati selvatici ne rimasero vivi solamente 26.

Qui l’immagine di un coraggioso stallone Equues ferus przewalskii abbattuto dalla spedizione dei fratelli Grum-Grzhimailo perché non voleva arrendersi a chi gli rubava i puledri: sì, dobbiamo qualcosa a questi cavalli –  anche a questi cavalli.