Due pensieri su Marco Kutscher e Van Gogh

Il cavaliere tedesco dopo la paurosa caduta di Roma a Piazza di Siena sta bene: acciaccato ma sano. Ci sono però alcuni temi sui quali vale la pena di riflettere a seguito della vicenda

Bologna, maggio 2016 – Certamente la spettacolare e tremenda caduta di Marco Kutscher e di Van Gogh nella fase finale del Gran Premio Loro Piana Città di Roma a Piazza di Siena è stato uno degli argomenti di maggior evidenza della giornata di chiusura dello Csio d’Italia: il momento, il contesto, la dinamica, quello che poteva accadere e che per fortuna non è accaduto lo hanno reso tale. Accertato che le condizioni del cavaliere tedesco non destano preoccupazioni, rimangono in ballo alcuni argomenti che sul tema hanno guadagnato una grande evidenza nel dibattito pubblico. E sui quali è opportuno sviluppare alcune riflessioni perché il contenuto del dibattito pubblico spesso produce delle derive che possono trasformarsi in veri e propri equivoci destinati a influenzare modi di pensare e di considerare il nostro sport e il nostro rapporto con i cavalli.

Primo aspetto della questione. Marco Kutscher ha completamente sbagliato la distanza di avvicinamento all’ostacolo: ebbene, questo pensiero (molto diffuso tra i commenti pubblicati sui social) è altrettanto completamente sbagliato e falso, evidentemente frutto dell’osservazione di persone incompetenti e impreparate a esprimere valutazioni di tale natura. La distanza di avvicinamento che Kutscher aveva calcolato nell’impostare la girata e poi l’approccio all’ostacolo era perfetta: la verità è che Van Gogh ha spontaneamente e sorprendentemente preso l’iniziativa prescindendo del tutto dalla volontà e dalla preparazione che il cavaliere aveva espresso e organizzato per arrivare a quell’ostacolo. Non si può nemmeno dire che Kutscher abbia in qualche modo indotto quella partenza così spropositatamente anticipata del suo cavallo: su quell’ostacolo non ci stava arrivando dopo una lunga galoppata in dirittura, non ci stava arrivando montando per guadagnare terreno falcata dopo falcata, soprattutto non ci stava arrivando su una distanza sbagliata. E allora perché è successo? E’ successo perché Van Gogh è un cavallo attento, collaborativo, insanguato, atleta e garista, un cavallo che si ‘cerca’ l’ostacolo da saltare: dopo una curva sviluppata in piena velocità (per quanto possibile in quel frangente) e compressione, uscire verso l’ostacolo per lui ha voluto dire liberare tutta l’energia e la potenza accumulate in quella preparazione. Ma lo ha fatto troppo presto, sorprendendo il suo stesso cavaliere che mai e poi mai si sarebbe immaginato un anticipo di quel genere, un anticipo contro ogni logica tecnica visto che dal punto dello stacco di Van Gogh c’era esattamente quella falcata di galoppo in più che era stata precisamente calcolata e prevista da Kutscher nel corso di tutta la preparazione a quel salto; mirabile preparazione, tra l’altro (una girata con cavallo pieno di impulso, morbido, agli ordini, senza il minimo contrasto con la mano del cavaliere, in perfetto equilibrio). Non si può nemmeno parlare di incomprensione o equivoco o fraintendimento: è semplicemente stata una fatalità che ci ricorda una volta di più che i cavalli non sono macchine. Tutto qui. Quindi colpa di Van Gogh? No, non si può usare il termine colpa: i cavalli non hanno mai ‘colpa’ di qualcosa. Errore, questo sì: un errore che si è sviluppato nell’arco di frazioni di secondo, un errore che non è stato nemmeno frutto di volontà bensì di solo slancio esagerato. Può succedere, all’interno di quei meccanismi che non possiedono ingranaggi di metallo e meccanici, bensì di carne, sangue e cervello.

Secondo aspetto della questione: Van Gogh ha fatto di tutto per non schiacciare il suo cavaliere. Anche qui: sbagliato. Una lettura dei fatti – questa – certamente suggestiva, romantica, emozionante: ma non realistica. In realtà Van Gogh nel momento più drammatico della vicenda sta facendo di tutto per voltarsi proprio dalla parte in cui Marco Kutscher è a terra: il suo collo e la sua testa protesi quasi spasmodicamente verso la sua sinistra e il movimento delle sue gambe in aria dimostrano proprio la volontà in quel momento di voltarsi sul fianco sinistro, cioè là dove si trova il povero cavaliere tedesco. E’ la dinamica della caduta che induce il movimento del cavallo in quella direzione: Van Gogh cade franando sulla sua spalla destra, poi va a terra con tutto il corpo e quindi la naturale rotazione della massa al suolo una volta che il cavallo si trova con la schiena a terra e le gambe in aria è verso la sua sinistra. Se Van Gogh non riesce nell’intento, pur spingendo con tutto sé stesso in quel senso, è perché la gamba sinistra di Marco Kutscher glielo impedisce: in quel momento il punto di equilibrio del cavallo a terra è solo la linea della sua schiena ed è quindi di una delicatezza assoluta poiché non vi è nulla su cui lui possa fare presa per darsi la spinta, se non la tensione muscolare del suo corpo e quella degli arti nel vuoto, dunque basta poco per costituire un ostacolo alla sua rotazione sul fianco. Tanto poco quanto la gamba del cavaliere in quella posizione. E’ proprio la gamba di Kutscher che infine consente a Van Gogh di spostare tutto il suo peso ed equilibrio verso destra – dunque in direzione opposta – e quindi di risollevarsi da terra ruotando la massa verso quel lato. Del resto la realtà è questa: nessun cavallo che ha schiacciato il proprio cavaliere lo ha fatto volendolo, e allo stesso modo nessun cavaliere che sarebbe potuto essere schiacciato dal suo cavallo è stato da esso intenzionalmente graziato. I cavalli non ragionano così, e chi ha avuto la sventura di vivere un’esperienza analoga a quella capitata a Kutscher lo sa bene: un cavallo che si trova a terra contro la propria volontà ha l’istinto primordiale di rialzarsi immediatamente e a qualunque costo, perché per un erbivoro predato stare a terra vuol dire consegnarsi al carnivoro predatore (ovvio che Van Gogh non si sarebbe certo aspettato di diventare la merenda per un branco di licaoni di passaggio per Piazza di Siena… parliamo di ‘consapevolezza’ di specie, eredità genetiche, codici tramandati nel dna del genere). Da terra un cavallo si deve rialzare: istantaneamente e in qualunque modo, perfino in presenza di un grave infortunio, perfino con una gamba spezzata, dunque a prescindere da dove si trova il cavaliere. Anche il caso del cavallo che ‘salta’ il cavaliere a terra (nell’eventualità in cui il cavaliere cada e il cavallo rimanga in piedi proseguendo sull’inerzia della velocità) non è la dimostrazione di animo buono e compassionevole, bensì una naturale e istintiva reazione nei confronti di qualcosa che impedisce l’azione e il movimento.

Detto questo, è ovvio che risulta molto bello e suggestivo poter riflettere nel cavallo comportamenti e atteggiamenti che fanno invece parte della socialità umana o al limite canina. Ma non è giusto: perché significa non riconoscere e non rispettare la vera natura della dimensione equina. L’interazione uomo/cavallo genera un rapporto molto particolare, sicuramente molto più complesso e articolato di quello che si instaura con un cane (per esempio) e proprio per questo stimolante e affascinante: ma bisogna rispettarne le caratteristiche specifiche, e non invece forzarle nel senso che più compiace e gratifica noi esseri umani. Se Van Gogh avesse voluto davvero evitare di schiacciare Kutscher (ripetiamo: cosa che invece sarebbe matematicamente accaduta senza la ‘difesa’ della gamba del cavaliere) allora ogni volta che un cavallo mette uno zoccolo su un nostro piede potrebbe decidere di calibrarne il peso, oppure in scuderia potrebbe decidere di urtarci bilanciando la forza del contatto, oppure potrebbe prendere le nostre dita tra i suoi denti dosando l’uso della forza delle sue mandibole, eccetera eccetera. Ma ciò non accade. Perché i cavalli vivono e si comportano da cavalli: e noi dovremmo imparare il loro linguaggio, non imporre il nostro più di quanto già non accada.

30 maggio 2016