Ginevra e il Sistema Unico Italiano

Lo spettacolo andato in scena in occasione del Gran Premio Rolex disputato nella città elvetica offre lo spunto per alcune considerazioni che riguardano i fatti della vita della nostra piccola equitazione

Bologna, dicembre 2015 – Il formidabile ed entusiasmante spettacolo sportivo del Gran Premio Rolex dello Csi di Ginevra – una delle gare più importanti del mondo – arriva quanto mai opportuno nel momento in cui in Italia si sta accendendo un bel dibattito a proposito del cosiddetto Sistema Unico Italiano la cui codificazione dovrebbe essere imminente. Perché? Quale è la relazione tra le due ‘cose’? Vediamo. A Ginevra il Gran Premio è stato vinto dallo svizzero Steve Guerdat che ha staccato di soli tre centesimi di secondo il francese Simon Delestre. Tre centesimi di secondo sono niente. Un meraviglioso e inedito sistema video che consente di vedere sul percorso due cavalli contemporaneamente (attenzione: non lo schermo diviso in due parti, ciascuna dedicata a uno dei due binomi, ma proprio una unica visione del campo ostacoli inquadrato dalle telecamere con… due cavalli sul percorso) così da poter confrontare immediatamente e direttamente la differenza di velocità e traiettoria e falcate di galoppo ha dimostrato poco dopo la fine di quella gara che il distacco tra i due avversari è stato di circa mezza testa di cavallo. Cioè quasi nulla. Tre centesimi di secondo: se ci pensate è impossibile quantificare nella nostra mente una tale dimensione. Eppure è una dimensione che ha dato a Steve Guerdat la vittoria, la gloria, il denaro, il primato, relegando – per così dire – Delestre nell’ombra del vincitore. Ginevra è un palcoscenico planetario e quindi l’evidenza di tale spettacolare duello è stata massima, ma questa situazione si verifica ormai molto spesso sui campi ostacoli di tutto il mondo a qualunque livello: le gare si decidono su distacchi cronometrici infinitesimali, dunque la differenza la fanno spesso le sfumature e i micro-dettagli, particolari che non si possono disgiungere e scollegare dallo ‘stile’ che caratterizza l’equitazione di ciascun cavaliere. Dice: ma chi se ne frega dello stile, quando si vince… Ma il punto è proprio questo. Il cosiddetto ‘stile’ non è un concetto estetico sterilmente fine a sé stesso: è in realtà qualcosa di utile, quando non addirittura fondamentale, ai fini del successo agonistico. La giusta posizione in sella, che diventa poi assetto quando collegata al movimento del cavallo, serve per garantire al cavaliere la piena ed efficiente disponibilità dei propri interventi durante il movimento in piano e sull’ostacolo: il fulcro di tutto, il centro propulsivo, il cuore dell’azione è la corretta inforcatura che garantisce l’autonomia e l’efficacia e l’indipendenza delle scelte tecniche del cavaliere, alla quale viene subordinato pressoché tutto. L’azione della mano, per esempio, dipende ovviamente dalla mano stessa, ma è condizionata in via preventiva dall’equilibrio tecnico – oltre che fisico – del cavaliere durante il movimento, quell’equilibrio che non può e non potrà mai esserci in assenza di una buona inforcatura. E non ci può essere buona inforcatura senza corretta posizione della gamba in ciascuna delle sue parti. Questo è lo ‘stile’ in sella: questa è la bellezza tecnica. Se un cavaliere quando si riceve da un salto come conseguenza di un assetto deficitario ha bisogno di appoggiarsi con una o addirittura entrambe le mani all’incollatura del cavallo anche solo una frazione di secondo per poter coordinare nuovamente la propria posizione in sella e il proprio equilibrio e i propri interventi, ebbene, perde tempo. E se ricevendosi da quel salto si presenta l’urgenza di una girata stretta e da fare in velocità, quel tempo (frazioni di secondo, appunto) può rivelarsi determinante. La differenza in termini di riscontro cronometrico in un barrage la fanno tre elementi: l’ampiezza della falcata di galoppo del cavallo; il numero di falcate di galoppo disposte tra un ostacolo e l’altro; la rapidità e la traiettoria nelle girate dove esista la possibilità di ‘togliere’ terreno. Il pilota-cavaliere deve essere capace di gestire tutto ciò al meglio, e per farlo necessita fondamentalmente di due presupposti irrinunciabili: sensibilità e assetto. E’ il collegamento e l’integrazione di queste due caratteristiche che produce l’eccellenza: l’assenza di una in presenza dell’altra limita il successo. In sostanza: il cavaliere dotato dell’una e sprovvisto dell’altra (o viceversa) che pur tuttavia vince, potrebbe in realtà vincere molto di più, poiché quei centesimi di secondo che talvolta lo penalizzano potrebbero essere annullati o addirittura girare a suo favore. Detto ciò risulta chiaro il motivo per il quale montare bene a cavallo e farlo secondo i dettami della buona e bella equitazione non è un concetto polveroso e antiquato o da ‘fighetto’ della domenica. Oggi più che mai, tra l’altro, ci stiamo rendendo conto di come la corretta applicazione dello ‘stile’ secondo quanto stabilito più sopra sia patrimonio di un sempre maggior numero di amazzoni e cavalieri di alto e altissimo livello: senza voler scomodare Sua Maestà Ludger Beerbaum, sublime e inarrivabile sintesi di… tutto, la lista potrebbe essere piuttosto lunga. Certo: ci vogliono i cavalli, ci vogliono le risorse professionali etc. etc. Tutto vero indubbiamente: ma la verità più vera, quella che le precede tutte, è che le case si costruiscono partendo dalle fondamenta e non dal tetto.

Tutto ciò detto, poniamoci ora la seguente domanda: in Italia oggi si monta bene o male? Risposta semplice: male. E non parliamo dell’alto livello agonistico, bensì della fascia di partenza e di quella media, lì dove si manifesta più eloquentemente l’influenza della didattica di base. Una didattica che oggi come oggi non ha più radici in nulla, una didattica gestita in modo frammentario e sconnesso, dove la realtà contingente influenza scelte e programmi di formazione, una didattica che soprattutto non vede più personaggi di riferimento di indiscutibile valore tecnico e formativo, e quelli che esistono sono troppo pochi o inascoltati perché reputati non più al passo con i tempi. Il vero grande e imbarazzante problema (molto imbarazzante, diciamolo) è proprio questo: mentre l’equitazione delle grandi nazioni si è evoluta a ritmo vertiginoso collegando i principi basilari e fondanti alle realtà del progresso e del futuro, noi presi da una insana smania di ‘sembrare’ al passo con i tempi abbiamo buttato via l’acqua sporca e con essa anche il bambino… o, se vogliamo rimanere metaforicamente agganciati alla realtà, abbiamo deciso che è più importante parlare di un’imboccatura piuttosto di saperla usare, o che è più importante decidere se fare un tempo in più o un tempo in meno piuttosto di saper galoppare correttamente, etc etc. Queste purtroppo non sono opinioni: sono fatti. E chiunque viva a contatto con i campi di gara del livello agonistico medio-basso ne è perfettamente consapevole. Da questa consapevolezza nasce l’idea di codificare ciò che la Fise ha voluto chiamare Sistema Unico Italiano (a questo proposito segnaliamo ai lettori una molto interessante intervista con Federico Roman in uscita sul prossimo numero di Cavallo Magazine: il campione azzurro entra nei dettagli e approfondisce i concetti che stanno alla base dell’intero progetto), cioè null’altro che i principi per l’appunto di base dell’equitazione italiana naturale, quella che esportata nel mondo ha dato vita a fenomeni tecnici, sportivi e agonistici davvero meravigliosi ma che in Italia abbiamo rinnegato terrorizzati alla sola idea di poter apparire troppo legati alla tradizione e alle nostre radici: in un momento storico (non solo sotto l’aspetto sportivo, peraltro) in cui eravamo tutti così desiderosi di dimostrarci capaci di un’emancipazione definitiva dagli arnesi del passato, dalle divise dell’apparato militare, dalle ristrettezze della selezione (a scuola il sei politico, a cavallo via libera a chiunque pur di far crescere rapidamente i numeri di qualunque cosa, anche dei portafogli… ), siamo riusciti a dilapidare un capitale costruito faticosamente negli anni convinti di essere più furbi dei più furbi, dimostrandoci invece capaci solo di sprofondare nel fallimento totale e di alimentare vertiginosamente la crescita dell’ignoranza tecnica e formativa e didattica. Ciò che per gli altri è stato moderno e attuale noi lo abbiamo sempre considerato solo inutile e superato: e adesso, cioè da decenni ormai, ne stiamo ammirando le sublimi conseguenze. Ma per risolvere tutto ciò basta elaborare una serie di principi riuniti sotto la voce Sistema Unico Italiano e fare in modo che il procedimento formativo sia degli istruttori sia degli allievi vi passi attraverso? Non abbiamo risposta. Ciò che possiamo dire con assoluta certezza è che in Italia è urgente e indifferibile una inversione di tendenza assoluta e drastica, altrimenti non ci risolleveremo mai dal nostro nulla. Un’inversione di tendenza che investa non solo gli aspetti strettamente tecnici ma anche quelli culturali (cultura sportiva, ovvio): le due cose sono inscindibili ai fini della produzione della qualità agonistica. Non sappiamo se sarà la codifica del Sistema Unico Italiano la via per quanto meno iniziare a risolvere il nostro problema di base: ovviamente ce l’auguriamo… Ma la precondizione fondamentale perché qualcosa di buono accada è che vi sia piena consapevolezza da parte di tutte le componenti del nostro sport che è indispensabile far muovere e crescere la base  partendo da un sistema riconosciuto e riconoscibile e diffuso e diffondibile. Un sistema di insegnamento, un sistema di equitazione, un sistema di approccio allo sport, un sistema di pensiero. Il sistema è ciò che rende comprensibile a chiunque ciò di cui si sta parlando. Il sistema è ciò che rende fuoriclasse e ancor più vincitore il cavaliere dotato di istinto ed estro personale facendolo divenire migliore di quanto già non sia. Il sistema è ciò che aiuta il cavaliere mediocre a elevarsi dalla mediocrità. Questo è il nocciolo del problema. Il contenuto del problema. Dopodiché tale contenuto mettiamolo pure nel contenitore che decidiamo sia più adatto e chiamiamo tale contenitore con il nome che ci piace di più: ma tenendo sempre ben presente che ciò che più conta è quello che c’è dentro, non quello che c’è fuori.

16 dicembre 2015