Ippogenitori, questi… conosciuti

Una figura determinante nel mondo del nostro sport, con un ruolo che non è affatto facile gestire al meglio

Bologna, marzo 2016 – Il termine ippobabbo o ippomamma – da cui la sintesi ippogenitori – è stato coniato negli anni Settanta da Lucio Lami, grande giornalista, inviato di guerra nelle zone più calde del mondo per Il Giornale di Indro Montanelli, scrittore, uomo di grandissima cultura e di un’intelligenza profonda e aggressiva ma allo stesso tempo sensibile e curiosa. Ovviamente appassionatissimo di cavalli, conosciuti e vissuti da ragazzino e poi durante il servizio militare in Savoia Cavalleria da giovane sottotenente, quindi mai più abbandonati: tanto da fondare nel 1972 la rivista mensile Lo Sperone in occasione della vittoria della medaglia d’oro individuale alle Olimpiadi di Monaco da parte di Graziano Mancinelli su Ambassador. Ed è proprio sulle pagine dello Sperone che compare per la prima volta il termine ippogenitore. Termine che però nasce in senso dispregiativo e deteriore (e che tale connotazione manterrà nel tempo), riferito a due categorie di padri e/o madri: quelli arroganti o invadenti o presuntuosi – oppure tutto questo insieme – che ritengono di doversi frapporre regolarmente tra i loro figli e lo sport da essi praticato per il solo fatto di esserne i genitori; e quelli molto ricchi abituati dal potere del denaro a imporre la propria volontà sempre e comunque, considerando come subordinato qualsiasi interlocutore (questa seconda categoria con anche una sorta di derivazione di opposta natura: genitori molto ricchi e facilmente abbindolabili capaci di spendere fortune per i propri rampolli viziati). Entrambe le categorie accomunate – sempre secondo Lami – da una profonda ignoranza di cose di cavalli.

Lami, che dalle pagine dello Sperone ha condotto battaglie molto focose contro la Fise dei suoi tempi e contro un certo modo di intendere l’equitazione elitario e di casta, individuava in queste due categorie di genitori uno dei semi da cui sarebbe sbocciato il disastro dell’equitazione italiana: perché a suo modo di vedere non solo avrebbero rovinato la possibile natura di sportivi dei loro figli, ma – cosa ancor più grave – avrebbero messo in circolo una mentalità e un comportamento il cui effetto perverso sarebbe stato lo svilimento dei veri valori dello sport. Per fortuna non tutti i genitori nel corso della recente storia dell’equitazione italiana sono appartenuti a queste due categorie, tuttavia è altrettanto vero che Lami aveva avuto una visione davvero profetica. E l’aveva avuta perché gli anni Settanta sono stati quelli in cui è terminato il processo di emancipazione dello sport equestre – soprattutto per quanto riguarda l’insegnamento e simmetricamente l’apprendimento – dai valori ereditati dalla cultura e dall’impostazione militari, verso una realtà in cui gli aspetti della vita civile e di quello che potremmo definire consumismo civile hanno acquisito una predominanza totale. Prima, quindi, l’istituzione e il singolo soggetto prodotto dall’impostazione gerarchica di ispirazione militare: io comando e voi ubbidite. Dopo, invece, l’inversione radicale del rapporto: io pago e quindi tu, istituzione e singolo soggetto prodotto dall’istituzione, fai come dico io. Sono ovviamente estremizzazioni un po’ semplicistiche ma utili a capire bene il contrasto tra due opposti, in mezzo ai quali sono esistite – tuttavia e per fortuna – varie sfumature.

Essere genitori, si sa, è il mestiere più difficile del mondo ma nel mondo dell’equitazione lo è ancora di più perché esistono alcune variabili assenti e inesistenti nel caso di altre discipline sportive. Un principio però universale è quello per cui lo sport – qualunque sport – rappresenta il primo terreno di attività sociale sul quale i ragazzi si emancipano dal rapporto con la famiglia, vivendo ruoli e relazioni che per la prima volta nella loro vita li vedono indipendenti e scollegati da mamma e papà; ovviamente mamma e papà rimangono determinanti affinché i figli possano vivere lo sport, ma i rapporti che si generano all’interno della pratica sportiva riguardano solo ed esclusivamente i ragazzi e gli interlocutori di quello sport. Il genitore che invade questo terreno, che si intromette in questa relazione o che – peggio che mai – per varie ragioni delegittima o anche solo dimostra agli occhi del proprio figlio di non rispettare quell’autorità, di fatto non fa il bene del ragazzo perché gli nega implicitamente quel fondamentale processo di emancipazione che sta alla base della crescita dell’individuo. La famiglia offre ai ragazzi la possibilità di praticare lo sport perché questo è un dovere dei genitori e simmetricamente un diritto dei figli. È proprio qui che si esalta il ruolo determinante del bravo genitore: esserci senza esserci, fare senza fare, vedere senza guardare. Ma non è facile. Anzi: è difficilissimo. Ecco perché molto sbrigativamente i vecchi istruttori di equitazione di una volta i genitori non se li volevano proprio vedere intorno. Eliminare il problema alla radice… !

Nel corso del tempo e nel mondo dell’equitazione le problematiche generate dall’interazione tra genitori, figli, sport sono divenute ancora più complesse e difficoltose. A maggior ragione se si considera l’ambito agonistico, dove spesso i genitori spendono cifre astronomiche per consentire ai propri figli di vivere questa loro passione. E tuttavia il principio dovrebbe rimanere identico, e non essere per nulla influenzato dalla presenza o dal consumo del denaro: esserci senza esserci, fare senza fare, vedere senza guardare. Ma ad esempio un genitore che spende un’infinità di soldi per acquistare e mantenere un cavallo (se non più d’uno), più tutto ciò che ne consegue, come fa a evitare di intromettersi nella gestione dell’attività sportiva del figlio? Eh… questo è uno dei grandi problemi del nostro sport: ecco perché essere bravi genitori nel mondo dell’equitazione è molto più difficile che esserlo in qualunque altro ambito sportivo (naturalmente stiamo parlando di genitori che non siano a loro volta praticanti).

In ogni caso la serie di articolate problematiche che nascono e si sviluppano all’interno dello sport equestre in tal senso, e le cui dimensioni sono sempre più consistenti, hanno prodotto alcuni fenomeni assolutamente inimmaginabili anche solo fino a pochi anni fa, a dimostrazione e conferma di tale consistenza. Come ad esempio la nascita dell’associazione Un Cavallo in Famiglia (Ucif) che si propone come punto di riferimento per tutti coloro i quali desiderino trovare un appoggio, un’indicazione, un suggerimento per affrontare al meglio qualunque difficoltà che abbia per protagonisti genitori, figli e cavalli. La nascita di Ucif (avvenuta per iniziativa di Glauco Ricci e Massimo De Giuseppe, quest’ultimo poi distaccatosi) è stupefacente per il semplice fatto che nessuno in precedenza ha mai pensato alla categoria ‘genitori’ come a qualcosa di organico, coerente e meritevole di una identità precisa, a parte Lucio Lami quando coniò il termine ippogenitori nel senso che sappiamo… Oggi, invece, Ucif è riuscita a fare tutto questo grazie a una incessante attività mediatica condotta sui social network (gli amministratori del gruppo Ucif su FB sono anche Francesca Primicerio e Michéle Conte, oltre a Glauco Ricci) e grazie un sito internet che raccoglie e promuove numerose iniziative di varia natura. In effetti i tempi cambiano e le cose evolvono: e così anche il termine ippogenitori ha vissuto una riqualificazione che adesso lo nobilita…

12 marzo 2016