La leggenda di Milton

Manca ormai poco alla finale della Coppa del Mondo di Parigi: ecco la storia del cavallo che ha riconsegnato il trofeo mondiale all’Europa dopo dieci anni di dominazione americana

Bologna, 3 marzo 2018 – Manca ormai poco più di un mese alla finale della Coppa del Mondo di salto ostacoli. L’appuntamento è a Parigi dal 10 al 15 aprile. Insieme ai World Equestrian Games è l’evento dell’anno. A dire il vero, a partire dal 1979 ogni anno la finale della Coppa del Mondo è l’evento dell’anno, naturalmente… Un evento che ha contribuito a scrivere grandi pagine di sport. Indimenticabili pagine di sport.

Per esempio Milton. Sì: un cavallo il cui nome al solo pronunciarlo evoca immagini di sublime suggestione. Nonostante il tempo ormai trascorso. John Whitaker in sella a Milton ha rappresentato un fenomeno straordinario in senso letterale: cioè fuori dall’ordinario. Per tante ragioni. Una delle quali è proprio legata alla finale della Coppa del Mondo. Oggi forse non in molti ricordano con nitida chiarezza il senso di vera e propria frustrazione che in Europa si è provato per esattamente dieci anni dal momento della prima finale di World Cup, quella del 1979 vinta dall’austriaco Hugo Simon: perché poi la vittoria è sempre finita nelle mani di amazzoni o cavalieri americani, statunitensi o canadesi. Ogni finale dal 1980 al 1989. Dieci anni. Sembrava una maledizione, sembrava che la Coppa del Mondo fosse stregata per l’Europa e per i cavalieri europei. Per dieci lunghi anni il prestigioso trofeo mondiale è rimasto al di là dell’Oceano Atlantico. Poi ecco la scintilla… O meglio: il fuoco d’artificio, l’esplosione, più che la scintilla. Milton e John Whitaker vincono la finale del nuovo decennio, quella di Dortmund nel 1990: la rottura di quello che in America era stato vissuto come un incantesimo e in Europa come un maleficio. E tanto per sottolineare come il vento fosse ormai cambiato, i due campioni insieme vincono anche la finale del 1991… Queste due vittorie hanno avuto un effetto simbolico forse perfino più grande e potente di quanto il successo sportivo fosse nella realtà. John Whitaker… beh, sappiamo bene tutti che meraviglioso campione sia. E Milton? Semplicemente un cavallo unico: la cui storia merita di esere raccontata.

Milton è morto domenica 4 luglio 1999 all’età di 22 anni. Il destino ha voluto che non varcasse la soglia del nuovo millennio: si è fermato prima come a significare non solo che lui appartiene integralmente a quel secolo, ma che è anche il cavallo ‘del’ secolo. Il cavallo simbolo degli anni in cui è nata e vissuta l’equitazione agonistica. Lo hanno stabilito diversi sondaggi condotti da autorevoli organi di informazione alla vigilia della fine degli anni Novanta: certo, solo opinioni, ma che Milton abbia effettivamente avuto pochi eguali nella storia del salto ostacoli è una realtà indiscutibile. E lo possiamo considerare come ‘simbolo’ non tanto per le sue vittorie – che sono in numero inferiore alle sue reali potenzialità – quanto piuttosto per quel qualcosa di particolare e impalpabile che è il fascino, che è il carisma, che è l’autorevolezza. Ecco, per tutto questo Milton è il cavallo del secolo: per il suo mantello meravigliosamente candido, per la coda e la criniera folte e luminose che a ogni salto sembravano sollevare lo scintillìo delle stelle, per quel suo gesto sull’ostacolo così personale e maestoso, per quei suoi movimenti morbidi e leggeri che mai davano la sensazione della fatica e dello sforzo, per la storia che gli sta alle spalle, per la caratteristica quasi umana di esaltarsi nelle grandi competizioni, per quella sua indefinibile capacità di agitare profonde emozioni nel cuore e nella mente di chi lo stava a guardare.

Milton all’apice della carriera ha avuto un avversario che – se possibile – lo ha esaltato ancor di più nella sua grandezza per il gioco dei contrasti: Jappeloup. Uno grigio (bianco) e solenne come una distesa di ghiaccio, l’altro morello (nero) e frizzante come una bottiglia di champagne; uno montato da un inglese – John Whitaker – imperturbabile e contadino nell’animo, l’altro da un francese – Pierre Durand – scoppiettante e di spirito dandy. Diversi, sì, eppure uguali: entrambi prodotti di una certa casualità allevatoriale nel senso che non escono da linee genealogiche ‘classiche’ e confermate nel mondo del salto ostacoli, entrambi paladini massimi della propria nazione, entrambi entrati nella storia grazie alle conquiste sportive. Dice Pierre Durand: «Quando Milton entrava in campo era la migliore espressione possibile di grazia e agilità: mi veniva spontaneo immaginarlo come una piuma sospesa in volo sugli ostacoli. Trovarselo in gara come avversario voleva dire partire sempre da una posizione di svantaggio; proprio per questo grazie a lui io con Jappeloup sono riuscito spesso ad andare molto al di là dei miei limiti di cavaliere. Milton e Jappeloup erano totalmente opposti, e non solo per via del loro mantello, ma accomunati dall’essere entrambi due superstar: i loro duelli hanno elevato lo sport equestre al livello di arte pura». Nelson Pessoa, che la storia del salto ostacoli l’ha fatta in sella essendone al contempo spettatore da ormai più di sessant’anni, è lapidario: «Il binomio John Whitaker-Milton è la più forte combinazione tra cavallo e cavaliere di tutti i tempi». Nick Skelton, compagno di squadra di John Whitaker in tante battaglie agonistiche, è essenziale come sua abitudine: «Penso che non si sia mai visto niente di simile a Milton in un campo ostacoli». A Stoccolma, in occasione del Campionato del Mondo del 1990, il francese Eric Navet (poi vincitore dell’oro) e lo statunitense Greg Best hanno montato Milton nella finalissima con lo scambio dei cavalli; subito dopo, in conferenza stampa, prima l’uno e poi l’altro hanno commentato così l’esperienza: «Milton è fantastico. Davvero non pensavo che al mondo potesse esistere un cavallo in grado di saltare in quel modo. Per me è stato un grande onore poterlo montare». «Sapere di dover montare Milton è stato come se qualcuno mi avesse detto che avrei avuto un appuntamento con la più bella ragazza del mondo: mi son tremate le gambe!». Milton riesce a far pronunciare dolci parole perfino a un grande ‘vecchio’ orso dell’equitazione britannica, Harvey Smith: «Non c’è mai stato un cavallo come Milton, mai. Se si chiudevano gli occhi quando lui saltava non si riusciva a sentire il benché minimo rumore». L’impatto che Milton ha avuto sul pubblico è testimoniato poi dalle parole di una tra le più importanti giornaliste britanniche, Judith Draper: «Milton è stato la risposta alle preghiere di tanti giornalisti: bastava solo pronunciare il suo nome e perfino i più ‘anti-equestri’ tra gli editori e i direttori erano disponibili a pubblicare qualcosa. Per chi si è occupato di sport equestri l’unico problema è stato quello di trovare continuamente i superlativi sufficienti a descrivere la grandezza di un tale campione. Guardarlo saltare è stato un grande onore per tutti noi, e un altrettanto grande privilegio essere pagati per farlo!». Infine John Whitaker: «Facendo il primo salto con Milton ho avvertito una sensazione di potenza e leggerezza come con nessun altro cavallo prima. Ho pensato immediatamente a qualcosa di magico. Una tra le più grandi doti di Milton era quella di ‘sentire’ l’importanza dell’avvenimento: tanto maggiori erano l’attenzione e la tensione del pubblico, quanto migliore risultava la sua prestazione. Quando la pressione era al massimo, Milton era nel suo elemento. Ci sono molte cose che rendevano Milton così particolare: ma la più importante era la sua volontà di essere particolare».

Caroline Bradley debutta a livello internazionale a vent’anni nel 1966. Nel 1977 è ormai un’amazzone di prima grandezza: dopo aver vinto ben dodici Coppe delle Nazioni, comporrà il team campione del mondo (1978) e d’Europa (1979). Un freddo pomeriggio di dicembre di quel 1977, Caroline torna a casa a Priors Marston, nel Warwickshire, guidando il suo van. Una volta giunta a destinazione fa scendere dal camion un puledrino grigio scuro tutto pelle e ossa, talmente goffo e sgraziato che vedendolo Tom e Doreen Bradley non riescono a trattenere una risatina ironica. Ma Caroline li ammonisce: «Non ridete, perché questo diventerà il migliore cavallo del mondo». Una frase buttata là tanto per dire o una lucida premonizione?

Quel cosino grigio ha sei mesi, si chiama Marius Silver Jubilee ma Caroline lo ribattezza Milton. La sua nascita è la conseguenza di un’amichevole sfida tra John Harding-Rolls e Fergus Graham, due uomini di cavalli esperti e appassionati, due veri amici. Graham sosteneva che in Gran Bretagna sarebbe stato piuttosto difficile produrre cavalli specificamente adatti al salto ostacoli: siamo nei primi anni ’70 e in effetti, allora come oggi, i più importanti cavalli britannici provenivano dagli allevamenti tedesco, irlandese, in parte olandese e belga. Harding-Rolls ribatteva che il problema stava tutto nello studiare attentamente le linee genealogiche di stalloni e fattrici: altrimenti l’allevamento inglese sarebbe vissuto sulla più totale improvvisazione.

Harding-Rolls di lì a poco su indicazione dello stesso Graham acquista in Inghilterra uno stallone che risulta figlio di Middle Temple, e che si chiama Middle Road: lo affida a Caroline Bradley. Qualche tempo dopo Caroline è in concorso con Middle Road. E con sua grande sorpresa si ritrova davanti a Eric Wauters, Johan Heins (cavalieri belga il primo, olandese il secondo) e Ted Edgar (trainer e commerciante britannico) che le confermano con assoluta certezza che Middle Road altri non è che lo stallone olandese di nome Marius… Tutti e tre lo riconoscono senza alcun dubbio. Come è possibile? Beh, cose che in Gran Bretagna allora evidentemente potevano accadere, quando l’organizzazione allevatoriale e commerciale era piuttosto vaga e approssimativa. Harding-Rolls avvisa Graham, il quale si mette all’opera e ben presto scopre che sì, Middle Road è in realtà Marius, del quale riceve nel giro di poco tutti i documenti dall’Olanda. Marius è figlio di un grande stallone trakehner approvato in Olanda, quel Marco Polo presente nelle linee genealogiche di alcuni ottimi saltatori di ieri e di oggi. Per ringraziare Graham del lavoro svolto per riconsegnare la giusta identità a… Middle Road, Harding-Rolls regala alla moglie dell’amico, Paula, una puledra di nome Epauletta (così battezzata in omaggio a lei), figlia di Any Questions e Pennyworth. A tre anni Epauletta (che in seguito, ceduta al cavaliere Derek Ricketts, sarà ribattezzata Aston Answer) viene coperta da Marius: la primavera seguente nasce Marius Silver Jubilee, puledro che nel dicembre del ’77 è venduto per mille sterline a Caroline Bradley.

Caroline dimostra doti davvero particolari nell’addestramento dei cavalli giovani, e durante il suo sodalizio con Harding-Rolls sono diversi i soggetti che grazie a lei emergono in campo nazionale. Con Marius conquista ottimi risultati, tra i quali la vittoria della Queen Elizabeth II Cup nel ’78; ma è Tigre il suo primo cavallo, un grigio tedesco di qualità eccelsa. Nell’81, tuttavia, Tigre viene venduto e così Caroline si ritrova senza il cosiddetto numero uno in scuderia. In realtà lei è certa di averlo, il numero uno: è il puledro di quattro anni Marius Silver Jubilee, ormai da tempo ribattezzato Milton, che giorno dopo giorno conferma le migliori speranze della sua proprietaria. Qualità ma anche carattere: se il suo pasto ritarda anche di solo un quarto d’ora, il giovane grigio si strappa di dosso coperta e fasce con un’energia e una rabbia da far paura. Caroline lo porta in gara ma senza esasperarne l’impegno, seguendo un programma di lavoro morbido e graduale.

Poi la tragedia. Nel giugno del 1983 Caroline e i suoi cavalli, Milton compreso, sono a Ipswich per il Suffolk County Show. Dopo aver preso parte alla prova più impegnativa del concorso Caroline improvvisamente accusa un malore, crolla a terra, viene immediatamente soccorsa e condotta al più vicino ospedale. Non ce la fa: il suo cuore cessa di battere stroncato da un infarto durante il tragitto in ambulanza. Caroline Bradley muore così, a trentasette anni.

Ventinove cavalli in scuderia: che farne? Tom e Doreen Bradley, distrutti dal dolore, vendono quelli di loro proprietà, restituiscono quelli di proprietà altrui, ma Milton rimane. Milton più di tutti gli altri è il cavallo di Caroline: tenere lui vuol dire conservare un po’ della vita di lei. Decidono di telefonare a John Whitaker, cavaliere del quale Caroline aveva una stima immensa. John riceve la telefonata esattamente nel momento in cui il suo van sta per partire per un giro di concorsi in Scozia; chiede di poterne riparlare al suo ritorno, dopo circa tre settimane. Ma i Bradley non aspettano e affidano il cavallo a Stephen Hadley, cavaliere più anziano di Whitaker e amico di famiglia. Con lui Milton prosegue al meglio il lavoro iniziato da Caroline: Hadley non lo forza mai, nonostante alla fine del suo sesto anno il cavallo dimostri ampiamente di essere di un livello davvero superiore.

Ma ancora una volta la malasorte ci mette lo zampino. Milton in scuderia è bravo e buono, solo due cose lo mandano letteralmente fuori di senno: la tosatrice e le siringhe. Per utilizzare entrambe bisogna usare mille accortezze. Un giorno, mentre Hadley è via per un concorso internazionale, la groom inizia a tosare Milton con tutte le precauzioni del caso; ma mentre sta lavorando sugli arti anteriori il cavallo improvvisamente viene assalito da un attacco di panico, comincia a tirare indietro, scivola, perde l’equilibrio, e quando si ristabilisce la calma ormai il guaio è fatto: la macchina tosatrice ha causato una lesione al tendine di una gamba anteriore una spanna sopra il nodello. Inizia così un calvario che solo con il senno di poi si rivela in realtà quasi una fortuna. Milton ritorna nei paddock dei Bradley dove rimane a riposo totale per tutto il 1984: forse ciò gli consente di preservare al meglio le energie della sua giovinezza.

Quando Milton si riprende del tutto sono passati diciotto mesi dal giorno del suo infortunio. I Bradley si rivolgono ancora una volta a John Whitaker, confortati nella scelta anche dal parere del cavaliere e commerciante tedesco Paul Schockemoehle il quale, oltre a essere stato grande amico di Caroline e averle affidato diversi soggetti in passato, aveva avuto un ruolo di primo piano nella trattativa che aveva portato alla sponsorizzazione dei fratelli Whitaker da parte della Next. Questa volta il progetto va a buon fine e Milton raggiunge le scuderie di John nello Yorkshire. Hadley, sebbene dispiaciuto di perdere un fuoriclasse del genere, capisce il motivo della decisione dei Bradley: la carriera internazionale di Whitaker era in prepotente ascesa, la sua invece in fase di declino anche in conseguenza dei suoi maggiori interessi nell’insegnamento e nel giornalismo di settore scritto e televisivo (oggi, tra l’altro, Hadley è una delle voci principali del canale televisivo della Fei). Tom e Doreen Bradley lasciano carta completamente bianca a Whitaker circa il lavoro e i programmi per Milton, ponendo tuttavia tre divieti assoluti: la partecipazione al Suffolk County Show, al Derby di Hickstead e alle Olimpiadi. Il primo divieto è comprensibilissimo: sarebbe stato troppo doloroso vedere Milton in gara sul campo dove era morta Caroline; il secondo divieto perché quella particolare gara veniva considerata troppo pericolosa, visto l’infortunio al tendine patito dal cavallo; per capire il terzo divieto bisogna fare un salto indietro di alcuni anni.

Nel 1972 Caroline monta Wood Nymph, con la quale riporta eccellenti risultati tanto da essere avvicinata dai responsabili federali britannici di allora che le chiedono la disponibilità della cavalla per le Olimpiadi di quell’anno (Monaco). Caroline entusiasta risponde affermativamente, salvo poi scoprire che l’intenzione sarebbe stata quella di proporle di affittare la cavalla a un cavaliere da scegliersi tra David Broome e Peter Robeson, e quindi non certo di pensare a lei in gara sul campo olimpico. Caroline è ragazza dal carattere forte e determinato, donna di personalità spiccata e di grande orgoglio: la proposta dei responsabili della squadra britannica prima la entusiasma ma poi – rivelatesi le intenzioni – la getta nella depressione più profonda. Fino a che un giorno, vanamente confortata da sua madre dopo ripetute crisi di pianto, si libera finalmente dell’incubo facendo a sé stessa un giuramento: «Nessun cavallo di mia proprietà parteciperà mai alle Olimpiadi».

Ecco da dove nasce il terzo divieto che Tom e Doreen Bradley impongono a John Whitaker: e non sarà cosa di poco conto perché nel 1988 quando Milton raggiunge il suo fulgore massimo, e in calendario ci sono i Giochi Olimpici di Seul, tra la federazione britannica e i genitori di Caroline si scatena una vera propria guerra. Whitaker-Milton in quel momento è un binomio in grado di garantire una medaglia sia individuale sia per la squadra, rinunciarvi vuol dire dimezzare il potenziale della rappresentativa nazionale. La pressione esercitata sui Bradley per convincerli a cambiare idea è enorme, la loro casa viene addirittura presa d’assalto da giornalisti e fotografi, con l’unico risultato di inasprire ancora di più Tom e Doreen nel loro rifiuto. Whitaker non entra nella disputa, rispettoso della volontà dei proprietari di Milton: ma è consapevole di dare l’addio a una medaglia olimpica quasi certa.

Solo quattro anni più tardi i Bradley ritornano sulla loro decisione, consentendo a Milton di prendere parte alle Olimpiadi di Barcellona: il giorno della morte di Caroline si è allontanato, Milton è ormai il numero uno al mondo da qualche tempo e quella in Spagna è di certo l’ultima opportunità di conquistare l’ambita medaglia. Ma nel 1992 gli anni fanno sentire il loro peso anche per un fuoriclasse del genere, inoltre a Barcellona in estate le condizioni atmosferiche non sono certo ideali per un cavallo che per rendere al meglio in una competizione così lunga e faticosa avrebbe avuto bisogno di un clima fresco e asciutto. Infatti in Catalogna Milton e John Whitaker subiscono l’unica vera grande sconfitta della loro carriera insieme: la gabbia e la doppia gabbia del primo percorso dell’ultima delle prove in programma si rivelano ostacoli insormontabili anche per loro. Niente da fare: le Olimpiadi di Milton dovevano essere quelle di Seul.

L’inizio della storia tra John Whitaker e Milton è folgorante. Alla fine dell’85 i due insieme affrontano i primi concorsi nazionali, in tutto due o tre. Poi subito la ribalta internazionale, con il binomio che annuncia a tutto il mondo che il nuovo re è ormai arrivato. Il primo concorso è a Berlino: terzo posto nel piccolo Gran Premio; poi è la volta di Bruxelles: secondo posto nel Gran Premio di Coppa del Mondo; quindi Bordeaux: vittoria del Gran Premio ancora di Coppa del Mondo. Da qui prende avvio una delle vicende più entusiasmanti e appassionanti della storia dell’equitazione: Whitaker e Milton vincono su tutti i campi ostacoli del mondo e in breve tempo scalano le classifiche internazionali per raggiungere una vetta che sarà di loro esclusiva proprietà per diversi anni. Insieme conquistano il titolo di campione d’Europa individuale e a squadre nel 1989 (argento e oro nel 1987, 5° e 2° nel 1991), la medaglia d’argento individuale e di bronzo a squadre nel Campionato del Mondo 1990, la vittoria nella finale della Coppa del Mondo 1990 e 1991 (2° posto nell’89 e nel ’93). E innumerevoli Gran Premi e Coppe delle Nazioni. Ma ancora una volta è il caso di sottolineare che non è il numero delle vittorie ottenute – e di quelle mancate – che dà la dimensione del valore di Milton: chi con i propri occhi ha visto Milton saltare anche solo in un percorso, anche solo una volta, sa perfettamente di cosa stiamo parlando. Stiamo parlando di un cavallo come non se ne sono mai visti né prima né dopo.

Poi anche questa storia si conclude. L’addio ufficiale alle competizioni agonistiche Milton lo dà nel dicembre del ’94 nella migliore occasione possibile: cioè durante il concorso internazionale di Olympia, a Londra, davanti al suo pubblico. Quindi viene accolto dai verdi paddock di casa Whitaker per una pensione che non è certo quella di un triste vecchietto in disarmo; in quel momento Milton è alla vigilia del suo diciottesimo anno d’età, è in piena forma, con un certo risparmio avrebbe potuto continuare a gareggiare ancora per almeno una stagione: aver deciso per il suo ritiro è stato un gesto di grande rispetto da parte di chi tanto ha ricevuto da questa vera e propria leggenda vivente.

Questa è la storia di Milton: il più grande cavallo del secolo scorso.