Laura Conz: il mio paradressage

Lunga e intensa intervista al responsabile tecnico del settore: la preparazione olimpica, i rapporti con gli atleti, il trauma dell’esclusione di Royal Delight a Rio de Janeiro, le prospettive future…

Bologna, 26 settembre 2016 – Con le ultime prestazioni dei binomi italiani a Rio de Janeiro lo scorso 15 settembre si è concluso il quadriennio olimpico del paradressage azzurro. Tempo di bilanci, dunque, o quanto meno di considerazioni retrospettive. Laura Conz, responsabile tecnico della squadra italiana, parla volentieri di questa lunga, impegnativa ed esaltante esperienza.

Cosa ha rappresentato per lei la prospettiva di partecipare alle Paralimpiadi con la squadra azzurra?

«La partecipazione a Rio de Janeiro era un punto del programma federale. Volevamo assolutamente riuscire a qualificare la squadra: non solo ci siamo riusciti, ma l’Italia ha chiuso al primo posto la graduatoria di qualificazione. E inoltre a Rio ci siamo presentati con il secondo posto nella World Ranking List sia individuale con Sara Morganti sia a squadre. Motivi di grandissimo orgoglio per tutti noi».

Il gruppo di cavalli e cavalieri è stato considerevolmente incrementato nel corso di questi quattro anni.

«Era uno degli obiettivi che mi ero posta quando ho ricevuto l’incarico alla fine del 2012. Siamo partiti con tre cavalieri e con il tempo sono arrivata ad avere una rosa di dieci binomi, con Alessio Corradini e Sara Morganti con due cavalli ciascuno. E tutti qualificati, tra l’altro: una grande soddisfazione, non solo per me ma per tutti i componenti il gruppo azzurro».

Quali sono state le difficoltà principali incontrate lungo il cammino di questi quattro anni?

«Direi che quella iniziale è stata proprio mia, personale: avere pochissima esperienza del settore. Mi sono dovuta ambientare rapidamente in un mondo per me completamente nuovo fatto di regole sportive e regolamentazioni diverse da quelle con le quali mi sono sempre confrontata. La seconda è stata quella di dover amalgamare un gruppo di persone di mentalità e abitudini molto differenti l’una dall’altra, e formarle a uno spirito di squadra: il primo anno ognuno di loro andava un po’ per la sua strada, diciamo… Il terzo grande impegno è stato quello di dare disciplina e programmazione: ecco, la programmazione era una cosa che mancava completamente».

Poi ci sarà stato un problema di confronto e relazione con la disabilità, probabilmente…

«Sì, ma i ragazzi mi hanno molto aiutata in questo. È anche capitato che talvolta durante le prime sessioni di lavoro qualcuno si sia fermato dicendomi “Magari potessi farlo!” quando io davo alcune indicazioni circa il modo di intervenire… È stata una obiettiva difficoltà iniziale, ma poi è andato tutto benissimo».

La disabilità non le ha mai indotto condizionamenti di alcun genere, di carattere psicologico e quindi poi operativo?

«Una delle prime cose che ho chiesto a tutti loro è stata molto semplice e diretta: volete essere degli atleti e dei cavalieri ciascuno nel proprio grado, oppure volete subordinare lo sport alla disabilità? La risposta è stata unanime: essere atleti e cavalieri».

Beh… domanda difficile e risposta bellissima.

«Sì, certo, è un argomento molto delicato ovviamente. Diciamo che per quanto riguarda il rapporto con la preparazione tecnica e la prestazione agonistica la disabilità non è mai stata nemmeno presa in considerazione: ci siamo sempre considerati solo e soltanto cavalieri in sella a un cavallo. Mentre invece è stata tenuta in gran conto per quanto riguarda lo studio e l’analisi e la riflessione sugli aiuti compensatori e il loro utilizzo. Questo ovviamente sì. Qui ho fatto molti studi e ricerche, ho guardato quello che fanno gli altri, mi sono documentata, sono stata anche molto aiutata da persone che sono da tanti anni nel settore come Guya Mina, Deodato Cianfanelli, diversi istruttori e steward ai quali mi sono rivolta, poi ho tradotto il regolamento dei classificatori… ».

Questo per quanto riguarda lei. Ma anche per gli atleti è stato così? Cioè anche per loro è sparito qualunque tipo di condizionamento dato dalla loro disabilità nel momento in cui vi siete concentrati solo ed esclusivamente sulla preparazione tecnica e agonistica?

«Dimenticarsi di avere delle disabilità non credo sia possibile. Anche perché viviamo in un mondo che non perde occasione per ricordarlo, basti pensare alle barriere architettoniche che ancora esistono. Nell’ultimo stage che abbiamo fatto prima della partenza per Rio, al Riding Club di Barberino nel Mugello, ci siamo trovati in una struttura totalmente accessibile. E vedere i miei atleti muoversi completamente indipendenti all’interno di una struttura che lo consente mi ha fatto capire per contrasto quanto a volte in strutture che si definiscono per giunta ‘adattate’ in realtà la loro indipendenza e autonomia siano limitate».

La selezione finale in vista della trasferta olimpica come è stata vissuta dal gruppo?

«Una selezione è sempre un momento che comporta gioia e dolore al tempo stesso. C’è chi viene escluso e chi invece viene scelto per raggiungere l’obiettivo finale per il quale si è lavorato tutti insieme. Per me è stato un motivo di grande rammarico dover scegliere quattro su otto: una selezione forte, quindi. Anche perché tutti si sono impegnati sempre al massimo delle loro possibilità».

L’impatto che tutto questo ha avuto su di lei è stato quello che si aspettava oppure c’è stato qualcosa di imprevisto?

«Direi che il cambiamento più grosso su di me è stato proprio quello iniziale: perché quando mi è stato proposto questo incarico io non lo volevo accettare. Per tanti motivi: non conoscevo l’ambiente, non conoscevo le problematiche legate alla disabilità, non conoscevo la normativa specifica, non conoscevo nessuno tra gli addetti ai lavori come ufficiali di gara e steward… Poi mi hanno convinta ad accettare la sfida: e direi che tutti insieme l’abbiamo vinta. Questo mi rende enormemente felice».

Gli atleti del gruppo come hanno vissuto il rapporto con lei?

«Beh, questo bisognerebbe chiederlo a loro. Mi è difficile dirlo perché a volte posso essere stata un’amica, altre volte solo il tecnico federale».

Adesso cosa succederà? Lei proseguirà nel suo incarico?

«Io ho un contratto fino al 31 dicembre. Poi si vedrà».

Sì, ma il suo auspicio quale sarebbe?

«Io sono una persona con i piedi per terra e che ama programmare. Da tempo ho investito in un corso di management sportivo da utilizzare in ambito federale oppure anche solo per me stessa, a livello privato. In questo momento non so dire quale sia il mio auspicio: sono ancora un po’ frastornata dopo l’esperienza delle Paralimpiadi a Rio e dalle mille cose da fare dopo il nostro rientro… relazioni, programmi, analisi. Quando la situazione si normalizzerà si chiariranno anche i miei pensieri».

Ecco, Rio: veniamo quindi alle Paralimpiadi. La trasferta logisticamente parlando è andata bene, no?

«Certo, anche perché da più di un anno la Fise la stava curando e programmando con il Comitato Italiano Paralimpico. Devo dire che per quanto riguarda la logistica sono rimasta un po’ sconcertata dal villaggio olimpico, dalle grandi distanze e soprattutto da qualche barriera architettonica che mi aspettavo meno evidente. Soprattutto tenendo conto del fatto che fin da principio si sapeva che ci sarebbero state sia le Olimpiadi sia le Paralimpiadi. Per fortuna abbiamo avuto il sostegno e la sponsorizzazione di Klacson che ci ha messo a disposizione degli strumenti davvero fondamentali: un braccio metallico che con un sistema di mozzi e di ganci si attacca alla carrozzina, con una ruota, una batteria e un manubrio. Praticamente un traino per la carrozzina, guidato autonomamente dalla persona e con una notevole autonomia grazie alla batteria. Altrimenti sarebbe stato tutto enormemente problematico: i nostri atleti si sarebbero dovuti fare a braccia ben più di due chilometri al giorno, cosa alla quale non sono certo abituati».

Veniamo ora alla nota dolente, cioè la vicenda della esclusione di Royal Delight e quindi di Sara Morganti.

«Sì, una vicenda determinante e traumatizzante. La cavalla non si era ben presentata nel primo trot-up ed è stata mandata in holding area. Lì è stata visitata del veterinario il quale non ha riscontrato positività né alla tenaglia sul piede né alla palpazione dei tendini, e in più la cavalla trottando sul morbido era perfettamente a posto. È stata quindi dichiarata rivedibile il giorno dopo; e il giorno dopo alle 7.36 precise la cavalla ha trottato: all’andata era perfetta, mentre al ritorno quando ha iniziato a frenare è andata sulle spalle e ha dimostrato dei passi non belli, questo va detto. Al che la giuria è stata lapidaria e l’ha mandata fuori, senza nemmeno farla trottare una seconda volta».

Naturalmente prima della partenza per il Brasile la cavalla era a posto…

«Ma certo. L’1 settembre, giorno della partenza verso Liegi da dove poi i cavalli si sarebbero imbarcati sul volo alla volta di Rio, abbiamo effettuato insieme al nostro veterinario di squadra Daniele Dall’Ora un ultimo test di verifica tenendo conto del fatto che sul luogo avevamo anche i cavalli di riserva. E i cavalli titolari sono stati pienamente confermati. Il punto è che bisognerebbe capire se effettivamente quanto emanato dalla Fei viene poi recepito e interpretato. L’articolo 1033 del regolamento veterinario dice che le ispezioni veterinarie sono fatte per assicurare il livello di ‘fitness to compete’ dei cavalli. Il punto due dice però che tale livello può variare a seconda delle specialità cui gli stessi cavalli partecipano. Poi c’è tutta una lunghissima parte che riguarda le varie procedure da applicare specialità per specialità: ma nulla che riguardi nello specifico una disciplina così delicata come il paradressage».

Ma lì in quella circostanza non c’è stata alcuna possibilità di discussione, di confronto?

«Certo: noi siamo andati a parlare con il presidente di giuria, la quale ci ha detto di non aver fatto trottare ulteriormente Royal Delight perché la situazione era fin troppo chiara e che quindi la cavalla non era compatibile con la linea che la giuria aveva deciso di adottare».

E il parere della commissione veterinaria?

«Il regolamento stabilisce che il responsabile della decisione sia il presidente di giuria».

Sì, però si presume che prima di prendere la decisione il presidente di giuria si consulti con i veterinari…

«Certo. Normalmente la giuria ascolta molto il veterinario della holding area, che è quello che praticamente visita il cavallo. E per lui la cavalla era ‘fit to compete’».

Però il parere della giuria è stato diverso…

«Sì, esatto».

E come è stata vissuta questa cosa all’interno del gruppo?

«Malissimo. Senza alcun dubbio. La fine di un sogno, perché è stato subito chiaro che senza la prestazione di Sara ci sarebbe mancato il punteggio più alto in squadra. Parliamo del binomio campione del mondo in carica. È stato chiaro a tutti: quindi è stato chiaro a tutti che saremmo scesi di molto in classifica rispetto al piazzamento che avremmo potuto conquistare con Sara in campo. Poi tutti hanno fatto belle gare battendosi al meglio, però certo ci è mancata la punta di diamante. C’è inoltre un altro aspetto molto importante da tenere in considerazione: in questo modo i nostri atleti sono stati esclusi dal Club Paralimpico, che è una fascia di merito istituita dal Cip. Il regolamento del Club Paralimpico è molto rigido, severo, selettivo e anche molto complesso che calibra diversi interventi economici sotto forma di borse di studio a seconda della fascia nella quale l’atleta è inserito. Si tratta di diverse centinaia di euro al mese, quindi di un aiuto piuttosto sostanzioso: mi pare che l’oscillazione sia dai 300 ai 1.000 euro mensili a seconda dei casi. La mancata partecipazione alla gara olimpica ha automaticamente escluso Sara e il mancato risultato di eccellenza della squadra ha escluso anche tutti gli altri».

Anche perché l’aspetto economico non è per nulla secondario nel caso di atleti che non sono professionisti di questo sport…

«Certo. Loro devono essere professionisti nel montare a cavallo e nel gestire i loro cavalli, ma non lo possono essere nell’attività. Tutti loro hanno la loro attività professionale, che non sempre è così compatibile con lo sport, con tutto quello che ne va di seguito: permessi, ferie… Hanno delle difficoltà vere. Al di là delle difficoltà economiche, poi, che spesso le trasferte rappresentano. Ecco perché la borsa di studio del Cip in molti casi è fondamentale. Purtroppo non molte persone sanno che questi atleti hanno un loro lavoro e che per fare lo sport devono fare sacrifici enormi, che per fare un’ora di allenamento in realtà ne impiegano quattro o cinque perché gli spostamenti non sono così veloci: per dire, anche solo sellare un cavallo richiede una grande quantità di tempo, se non si è aiutati in qualche modo da qualcuno. Nella paralimpica è tutto dilatato e quindi gli sforzi non sono così semplici da gestire».

Il trauma per l’esclusione di Royal Delight è stato poi in qualche modo metabolizzato?

«Per forza di cose. Anche in questo devo dire che sono enormemente orgogliosa dei miei ragazzi. Superato lo shock iniziale abbiamo tutti insieme fatto muro, anche Sara stessa, che non è mai mancata. Mai. Abbiamo iniziato la gara con l’idea di dare battaglia fino in fondo, e in effetti i risultati soprattutto del primo giorno l’hanno confermato».

E Sara Morganti come è riuscita a reagire?

«Da una parte con grandissima forza. La prima reazione di chiunque sarebbe stata quella di andarsene via. Lei invece non è andata via, è rimasta, ha seguito tutti gli allenamenti, è stata presente in tutti i momenti della vita di squadra, trasmettendo una grande energia positiva. Dall’altra parte, al momento era davvero molto amareggiata. Molto. E non voleva assolutamente parlare del futuro».

Rimanendo all’aspetto tecnico della vicenda, una volta che dell’esclusione di Royal Delight ci si è fatta una ragione è cominciata la gara degli altri…

«Allora, facciamo un discorso più allargato e generale. Che venga o meno riconfermata nel mio incarico, io ho un progetto. Che è ovviamente Tokyo 2020. Un appuntamento che deve necessariamente passare attraverso un Campionato del Mondo 2018 fatto molto bene per tutta una questione di qualifiche. Quindi con questi atleti è già partita un’analisi oggettiva e obiettiva e forse anche un po’ crudele di come siamo. E siamo tutti convinti e consapevoli che i nostri cavalieri sono da medaglia. Ovviamente al meglio non c’è mai fine, ma i cavalieri ci sono e sono tutti motivatissimi: sia quelli che erano a Rio sia quelli che sono rimasti a casa. Ora, il punto è che bisogna avere i cavalli. Questa è una verità alla quale non ci si può sottrarre, che è analoga a quella del dressage peraltro. Con una differenza sostanziale: i cavalli del paradressage devono imparare un diverso linguaggio con il cavaliere che richiede molto tempo per essere perfezionato, però devono affrontare un numero di esercizi quantitativamente inferiore. Il lavoro lungo è quello di intesa da raggiungere con il proprio cavaliere, perché il rapporto di fiducia deve essere molto alto da entrambe le parti. Quindi la ricerca dei cavalli ideali per Tokyo va avviata subito. Io vorrei proprio lanciare una sfida: tutti dicono che in Italia si alleva bene e che siamo ad altissimi livelli. Allora io vorrei chiedere agli allevatori italiani di riuscire a procurarci otto cavalli per arrivare a Tokyo. Trovati i cavalli poi ci sarà la sfida di come pagarli: ma intanto ce li segnalino, ce li facciano vedere. Detto questo, la Fise sta valutando ovviamente tutte queste problematiche. A me la federazione ha chiesto un’analisi dettagliata di tutto quello che riguarda l’attività del mio settore e io la sto preparando per consegnarla quanto prima. Anche perché prima delle Olimpiadi di Tokyo 2020 c’è da fare un Campionato d’Europa nel 2017 e un Campionato del Mondo nel 2018… ».

A proposito di visibilità: è d’accordo sul fatto che l’attenzione e la pubblicità rivolte al fenomeno paradressage sia per le Olimpiadi sia per tutta la preparazione olimpica sono state più alte che in passato?

«Assolutamente d’accordo. La politica del concentrarsi sui risultati e del lavorare sempre più duramente per continuare a ottenerli è stata enormemente apprezzata. Non solo dagli appassionati, ma anche dagli sponsor, a proposito dei quali voglio dire una cosa con la massima pubblicità: la squadra paralimpica azzurra considera un grandissimo onore aver ricevuto il sostegno delle persone e delle aziende che ci hanno sponsorizzato. Da parte di tutti i nostri sponsor il sostegno è stato non solo materiale ed economico, ma anche umano e spirituale, di vicinanza sensibile: per noi tutti è stato fondamentale. Tutti loro sono stati determinanti anche per una ragione molto semplice, per l’innesco di un circolo virtuoso: le risorse offerte dalle sponsorizzazioni consentono il miglioramento delle prestazioni, il miglioramento delle prestazioni determina il miglioramento dei risultati, i risultati accendono l’attenzione mediatica, l’attenzione mediatica gratifica anche gli sponsor… ».

Sono quindi molte le aziende che vi hanno sostenuto?

«Non so dire se tante o poche: dico però che sono state tutte fondamentali. A partire da Cavallo Magazine, che oltre a garantire informazione e approfondimenti giornalistici ha anche sostenuto il costo di una intera trasferta agonistica in Germania: una gara che non era originariamente inserita nel programma federale ma che è stata aggiunta proprio per migliorare la preparazione. Ma poi Loro Piana, Sergio Grasso, Kep Italia, Klacson, I Plastron di Arianna, Pariani, Erreplus, RG: tutti ci hanno fornito abbigliamento, strumenti, accessori, finimenti. Lelia Polini di Kep Italia è venuta di persona a Rio e ci è stata tanto vicina. Ma tutti, davvero tutti ci sono stati vicino, dandoci la sensazione di rappresentare davvero qualcosa per tutti loro. E poi abbiamo sentito molto forte la vicinanza del Cip con il presidente Luca Pancalli e il segretario generale Marco Giunio de Sanctis. E naturalmente la Fise. Anzi, a questo proposito va reso evidente un aspetto in particolare: il budget della paralimpica negli anni scorsi è stato costituito quasi per intero dal solo contributo del Cip, mentre quest’anno è intervenuta anche la Fise che con il suo apporto ha incrementato considerevolmente l’intero ammontare».

Signora Conz: quale è la cosa più importante che le hanno lasciato in eredità questi quattro anni di lavoro?

«Non ce n’è una più importante di altre: per me sono stati quattro anni vissuti con grandissimo coinvolgimento e altrettanto grande intensità. Una cosa per certo la posso però dire: che io da questi quattro anni esco con un bel po’ di pazienza in meno verso i normodotati… ».