Palermo, 3 settembre 1982: morì anche una ragazza che amava i cavalli

La sera del 3 settembre 1982 a Palermo vennero trucidati il prefetto di Palermo, generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e il poliziotto Domenico Russo: lei, milanese di origine, era stata una delle promotrici della riabilitazione equestre in Italia

Palermo, 3 settembre 2019 – Oggi è l’anniversario della strage di via Carini: lì il 3 settembre 1982  furono trucidati il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, da pochi mesi prefetto di Palermo, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di Polizia Domenico Russo

Grazie al Memorial Dalla Chiesa, Master d’Italia Indoor di salto ostacoli  organizzato dal Gruppo Emiliano Sport Equestri la loro memoria viene tenuta viva anche  grazie al nostro sport, e alle iniziative collaterali supportate grazie agli organizzatori di questo evento e dedicate alla educazione alla legalità di giovani, studenti e cittadini.

Ma per ricordare le cose bisogna saperle: ad esempio, lo sapevate che Emanuela Setti Carraro è stata tra i primi in Italia a promuovere l’ippoterapia e la riabilitazione equestre? oggi è la giornata giusta, quindi, per ricordarla anche qui insieme al marito, e all’agente Russo.

Per capire chi fosse il generale Dalla Chiesa bisogna leggere una sua biografia: ti trovi davanti ad una sfilza di incarichi e situazioni eccezionali che sembra di scorrere la sceneggiatura di un film, viene quasi impossibile immaginare che una sola persona possa aver affrontato tante cose difficili in una vita sola. Guerra, Resistenza, lotta al banditismo e alla Mafia e alle Brigate Rosse.

Poi ancora contro la Mafia a Palermo, non più come ufficiale dei carabinieri ma come Prefetto: ci verrà assassinato assieme alla moglie il dopo 54 giormi di matrimonio, l’agente Domenico Russo che li seguiva morirà dopo giorni di agonia.

Ma per riempire di colore un figura quasi astratta nella sua eccezionalità dovete cercare su Youtube una intervista televisiva concessa dal generale ad Enzo Biagi: vedrete un uomo abituato a contenersi entro i limiti di una rigida forma, quasi risorgimentale nel suo modo di parlare così serio e attento.

Ma che dice cose vere, calde, nette e decise: e proprio per contrasto con il registro di espressione così ufficiale, la tenerezza di certi sentimenti e la delicatezza con cui li affida a chi lo ascolta risalta ancora più viva, e speciale.

«Piemontese di ferro per coerenza, costanza, perseveranza e amore per lo Stato; ma di tanto in tanto saltano fuori l’impulsività, la fantasia e anche lo humor emiliano della mia famiglia di origine», dice a Biagi lo stesso generale Dalla Chiesa.

Emanuela Setti Carraro invece era nata a Borgosesia nel 1950 da una famiglia della buona borghesia.

Trent’anni di differenza, vite diverse alle spalle.

Lui vedovo con tre figli, ufficiale dei Carabinieri con importanti successi operativi contro brigatismo, mafia e camorra; lei giovane e dedita al volontariato.

Se il generale ha qualcosa di risorgimentale, Emanuela sembra uscita da un libro di Liala: un poco demodé nella sua scelta di fare l’infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana quando le coetanee strillavano sulle barricate del ’68, qualcosa di originale per quegli anni che andavano in direzione ostinata e contraria.

Unì la sua passione per i cavalli e l’equitazione a quella per il volontariato contribuendo a far nascere, grazie al supporto tecnico e logistico del reggimento delle Voloire, uno dei primi centri ippici dedicati all’ippoterapia in territorio nazionale, quello che ancora funziona alla caserma Santa Barbara di Milano.

A conferma che Emanuela non fosse certo una educata bambolina bionda senza volontà anche la sua scelta sentimentale: si innamora del generale Dalla Chiesa che era vedovo dal 1978, uomo affascinante e che comprendiamo benissimo possa aver conquistato una ragazza di 31 anni più giovane che  condivideva gli stessi valori.

Lui chiede la sua mano ai genitori Setti che gliela rifiutano in diretta, e lei che fa?

Accarezza la guancia del padre, si siede sulle ginocchia del fidanzato e se ne esce con un bel «E io me lo sposo lo stesso».

Il loro matrimonio durerà solo 54 giorni: fino ai Kalashnikov di via Carini che la uccisero per prima, come per far soffrire ancora di più Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Assieme a Carlo Alberto dalla Chiesa e alla moglie  Emanuela c’era anche lui, Domenico Russo, il poliziotto di Santa Maria Capua Vetere.

Sì, vicino al generale e alla moglie quella sera c’era un agente di Polizia, non un carabinierie.

Aveva la stessa età della signora Dalla Chiesa.

L’unica foto che abbiamo di lui è di quelle in bianco e nero, da carta d’identità: scattata in una macchinetta automatica con la tendina davanti, fatta un po’ di corsa magari perché c’era da rinnovare un documento – dai che poi devo tornare in servizio.

Ma la foto è venuta bene: Domenico ha una bella faccia pulita, la bocca è seria ma dagli occhi gli scappa un sorriso.

Dalla Chiesa si fidava di lui: ma non era la sua scorta, che è sempre formata da almeno due agenti – uno guida e l’altro è armato, Domenico era “solo” un uomo su cui il generale sapeva di poter contare.

E Domenico era da solo, perché il generale e la moglie uscivano e lui li seguiva su una macchina di servizio per coprirgli le spalle.

Aveva con sé la sua pistola d’ordinanza, una Beretta modello 92.

Sapete quanti colpi ha una Beretta modello 92? quindici.

15 proiettili in tutto.

Domenico Russo con quei quindici proiettili, è sceso dalla sua Alfetta: dopo che la BMW dei mafiosi aveva bloccato la A112 guidata da Emanuela, dopo che i Kalashnikov AK-47 avevano già cominciato a crivellare la macchinetta bianca.

Gli altri erano almeno in quattro.

Sapete quanti colpi ha un Kalashnikov? trentacinque.

35, più quello in canna.

Un uomo contro quattro bestie, quindici colpi contro centoquarantaquattro.

Domenico Russo sapeva di essere praticamente disarmato eppure è sceso lo stesso da quella Alfetta per cercare di fare qualcosa, almeno fermarne uno.

Hanno fermato lui per sempre: è morto dopo dodici giorni di agonia, senza riprendere mai conoscenza.

Aveva 32 anni, una moglie e due bambini piccoli.

Adesso ha anche una Medaglia d’oro al Valor Civile: «…proditoriamente fatto segno a numerosi colpi d’arma da fuoco esplosi a distanza ravvicinata da parte di alcuni appartenenti a cosche mafiose, tentava di reagire al fuoco degli aggressori nell’estremo eroico tentativo di fronteggiare i criminali».

Parole da burocrate, come una fotografia in bianco e nero da mettere sulla carta d’identità: eppure da quel “tentava” scappa ancora fuori il coraggio di Domenico, come un sorriso dagli occhi.

«Chiunque pensi di combattere la Mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo» – Carlo Alberto dalla Chiesa.