Riviera sì o riviera no?

Il recente Gran Premio di Aquisgrana ha portato nuovamente alla ribalta delle cronache il cosiddetto caso-riviera: un ostacolo da sopprimere o invece da conservare?

Bologna, luglio 2016 – La piccola disavventura vissuta da Ludger Beerbaum in sella a Chiara nel recente Gran Premio di Aquisgrana ha aperto un bel dibattito pubblico ed ‘elettronico’ a proposito dell’ostacolo riviera, nell’ambito del quale sono state espresse numerose e varie opinioni. La cosa interessante di tutto ciò è che su fronti opposti – diciamo il fronte del pro e il fronte del contro – si sono trovati anche personaggi di comprovata esperienza e competenza a dimostrazione del fatto che il problema è sentito non solo da un punto di vista squisitamente emotivo. Tra l’altro sarebbe un errore ritenere che la discussione sulla riviera sia una realtà del solo giorno d’oggi: già nel 1970 infatti L’Année Hippique – il prestigioso annuario dello sport equestre internazionale – lanciò un sondaggio tra i cavalieri del salto ostacoli per dare pubblica rilevanza all’argomento e valutarne la considerazione degli addetti ai lavori. In quell’occasione uno degli interventi più autorevoli fu quello di Raimondo d’Inzeo: “La considero interessante solo se è ben costruita, come ad Aquisgrana, dove i cavalli si rendono conto di doverla saltare e non come in tanti concorsi in cui è così trasparente e così poco profonda che può sembrare un tratto di terreno bagnato, il che induce i cavalli a entrarci dentro”, disse allora il campione azzurro. “Comunque, secondo me, le dimensioni olimpiche sono esagerate. Non penso che converrebbe sopprimerla ma, come ho già detto, sarebbe bene limitarne l’impiego solo a qualche gara come la Coppa delle Nazioni e il Gran Premio”. Quindi, come si vede, anche un grande protagonista di un tempo che non è più quello di oggi sentiva la necessità di circoscrivere l’utilizzo della riviera a situazioni ben precise; però auspicando un criterio di costruzione che invece oggi è al contrario giustamente bandito poiché fonte di rischi eccessivi, e cioè la profondità: ma di questo vedremo poi. Raimondo d’Inzeo inoltre proseguiva nel suo ragionamento circa un altro aspetto tipico di tale ostacolo, cioè la valutazione dell’errore eventualmente commesso dal cavallo: poiché la riviera, infatti, è l’unico ostacolo sottoposto a una valutazione discrezionale da parte dell’occhio umano e proprio per questo la storia è piena di casi di errori commessi e non sanzionati e viceversa: “Quanto a risolvere la questione del giudice che può sbagliare”, dice d’Inzeo, “è piuttosto difficile in quanto ‘errare humanum est’. Forse si potrebbe, dico potrebbe, risolvere rimpiazzando la striscia di legno bianca con della plastica molle, come hanno provato al Chio di Londra nel 1969, oppure si potrebbe semplicemente levare la penalizzazione”. In effetti con il tempo è accaduto proprio questo: la cosiddetta stecca è stata davvero sostituita da tasselli di plastilina bianca sulla quale rimane impresso ogni minimo contatto; l’idea invece di non rendere penalizzabile l’esito del salto sulla riviera non è mai stata presa in considerazione (salvo nel caso in cui vi si predisponga un ostacolo sopra, costruito con tutti gli opportuni criteri: in quel caso la penalizzazione è data dall’eventuale abbattimento della barriera e non dal contatto con l’acqua).

In ogni caso è vero che al giorno d’oggi la riviera in gara la si incontra solo nelle prove più impegnative dei grandi eventi, proprio come auspicava Raimondo d’Inzeo. Anche perché – logisticamente parlando – non è un ostacolo facile da gestire: i campi ostacoli stabili la prevedono (ma non tanto spesso, ormai) come dotazione diciamo fissa perché scavata nel terreno, mentre in tutti gli altri casi è possibile utilizzare le riviere ‘mobili’ tuttavia molto spesso rinunziandovi in partenza. E a proposito dello ‘scavo’, ecco comparire il problema della sicurezza. Una riviera profonda è pericolosa non perché il cavallo e il cavaliere rischino… l’annegamento in caso di caduta, bensì a causa dell’inclinazione della linea del fondo, che sarà ovviamente subordinata alla profondità della zona di ingresso dell’ostacolo. Il pericolo consiste nel fatto che se un cavallo mette un piede nell’acqua – piede che ovviamente dovrà spingere sul suolo dall’avanti verso l’indietro – potrebbe scivolare in caso di eccessiva inclinazione unita magari a una superficie che offra poca aderenza. Una scivolata del piede di questo tipo – dall’avanti verso l’indietro – è pericolosissima perché toglie al cavallo qualunque sostegno nel momento in cui la forte spinta dell’inerzia lo catapulta in avanti: inutile dire cosa potrebbe conseguirne… Ecco perché oggi le riviere hanno una profondità davvero minima, presentando materiali anti scivolo sul fondo (soprattutto verso l’uscita, là dove un tempo per la stessa ragione si predisponevano un po’ empiricamente le stuoie di cocco, tipo gli zerbini pulisci-scarpe che si usano davanti alla porta di casa) e garantendo uno standard di sicurezza infinitamente più elevato rispetto a un tempo.

La riviera è poi in un certo senso una sopravvissuta: l’ultima rappresentante di quegli elementi che legano il salto ostacoli odierno alle sue radici profonde. I percorsi in campo ostacoli, infatti, altro non sono che una sintetica simulazione delle difficoltà che si incontravano ai tempi in cui l’equitazione si faceva prevalentemente in campagna. Anche i nomi degli ostacoli derivano da lì, naturalmente: passaggio di sentiero (per tutti oggi gli ostacoli larghi si chiamano oxer: ma è sbagliato, gli oxer sono una cosa, i passaggi di sentiero un’altra), cancello, arginello, muro, fosso, staccionata etc etc. Per un lungo periodo la riproduzione di tali difficoltà in campo ostacoli è stata fedele: con in più l’aggiunta di altri elementi ‘naturali’ quali banchine, talus, parc-à-mouton, macerie vere… Poi pian piano tali elementi sono spariti, gli ostacoli hanno preso altre forme e altri colori e soprattutto hanno offerto standard di sicurezza sempre più elevati, fino ad arrivare alla realtà odierna: pensate cosa poteva succedere nell’epoca in cui i larghi nei concorsi internazionali più importanti arrivavano a misurare due metri di larghezza per uno e cinquanta in altezza con più di una barriera anche dietro e senza ferri di sicurezza, e stiamo parlando di barriere di diciotto centimetri di diametro e di sei metri di lunghezza… da saltare magari su terreni molto simili a quelli di campi di patate! Quindi tutto è cambiato, ma la riviera – pur con gli aggiustamenti della modernità – è rimasta: ultimo e unico elemento che impegna il cavallo in un salto di estensione, tra l’altro.

Tuttavia la presenza in campo ostacoli della riviera non ha solo un significato di romantica reminiscenza storica: vi sono collegati infatti alcuni aspetti tecnici molto importanti da non sottovalutare. La combinazione di un salto di estensione e di un salto di elevazione, ad esempio, offre una eloquente prova del grado di equilibrio e rispondenza raggiunto dal cavallo, quindi in definitiva della qualità della sua preparazione complessiva. La disposizione sul terreno di gara di una linea che preveda per esempio un verticale (quando non addirittura una gabbia di verticali) preceduto dalla riviera tende proprio a valorizzare questo concetto: ed è un concetto fondamentale che si applica a tante altre situazioni – se non a tutte, pensandoci bene – cioè quello della capacità di un cavallo di distendersi e di riunirsi, di aprirsi e di chiudersi, di andare avanti e di tornare indietro, di stare nella mano del cavaliere senza contrasto e opposizione, di predisporre la propria muscolatura morbidamente e soprattutto rapidamente nei confronti delle diverse e opposte richieste proposte da una situazione tecnica del genere. Estremizzando i termini della questione, si potrebbe quasi arrivare a dire che la qualità del lavoro in piano raggiunta e prodotta dall’insieme cavallo/cavaliere viene valorizzata ed esaltata quanto mai in campo ostacoli dalla combinazione della riviera con un ostacolo di elevazione.

Quelli che si ritengono problemi causati dalla riviera molto spesso sono in realtà determinati da un errato modo di affrontarla. Molti cavalieri infatti ‘attaccano’ la riviera da lontano, imprimendo al proprio cavallo una turbinosa velocità di avvicinamento nell’intento evidente di scongiurare due effetti: l’eventuale ritrosia del cavallo nell’andare verso l’ostacolo (se non addirittura la volontà di non saltare) e la possibilità che il cavallo non raggiunga una estensione sufficiente a coprire l’intero specchio d’acqua. Per quanto riguarda il primo punto è chiaro che si tratta di un falso problema: se un cavallo ha paura dell’acqua può anche galoppare a tremila all’ora ma l’acqua non la salterà; anzi, la velocità creerà al cavaliere una maggiore difficoltà di controllo, una maggiore imprecisione nell’avvicinamento, darà al cavallo l’opportunità di attaccarsi fisicamente all’imboccatura e di deviare dalla traiettoria con molto più agio oppure, se proprio sull’inerzia non ce la facesse né a deviare né a fermarsi, potrebbero nascere situazioni di grande pericolosità e di grave rischio oltre che di trauma e spavento. Il timore di un cavallo per la riviera del resto non lo si risolve in concorso quando è il momento di saltarla, bensì con il lavoro a casa (certo: disporre di una riviera non è sempre facile, ma se si è consapevoli che il problema esiste bisogna necessariamente ingegnarsi, magari andando a saltare là dove si sa che ne esiste una); ma è anche vero che raramente i cavalli temono la riviera in origine: spesso il loro è un timore indotto da esperienze negative maturate a seguito di cattiva gestione della cosa da parte dei loro cavalieri.

Il secondo punto (difettosa copertura dello specchio d’acqua) è forse quello che più denota un aspetto di carattere tecnico. La larghezza di una riviera va da tre metri e mezzo, a quattro, a quattro e mezzo (una volta si arrivava anche a cinque). Ebbene, quando un cavallo salta un ostacolo largo ‘normale’ dal punto della battuta a quello della ricezione copre una quantità di terreno pari se non addirittura superiore alla larghezza di una riviera, ma la ‘velocità’ con la quale lo si affronta è infinitamente minore di quella che il cavaliere timoroso imprime nell’avvicinamento all’ostacolo d’acqua. Quindi? Quindi ne risulta che ovviamente l’elemento fondamentale per la copertura di quella larghezza non è la velocità, bensì l’impulso e la conseguente ampiezza della parabola. E’ facendo una parabola ampia e rotonda che il cavallo copre l’estensione del terreno: questa è la ragione per la quale – ad esempio – ai cavalli si ‘insegna’ a saltare la riviera mettendo un ostacolo sopra lo specchio d’acqua (di dimensioni proporzionate al livello di lavoro, e spostato più verso l’entrata dello specchio d’acqua, naturalmente): in questo modo li si invita a ‘saltare’ l’insieme di barriere e acqua, arrotondando e ampliando una parabola che di per sé produrrà poi la corretta estensione. Ma al di là della fase di apprendimento riservata ai cavalli giovani, questo è un sistema utile anche con i soggetti maturi e capaci che dimostrano nei confronti della riviera un’indifferenza tale da rasentare la svogliatezza, così da incorrere spesso in penalizzazioni dovute al classico piede nell’acqua (o sulla plastilina o stecca che sia).

Sono tutte considerazioni espresse in via generale, naturalmente, poiché ogni cavallo in qualche modo fa storia a sé. Ma è altrettanto ovvio che la riviera in sé stessa non è un problema, o quanto meno lo è non di più e non di meno di qualunque altro ostacolo, o comunque lo è come effetto indotto da qualcosa di preesistente il momento in cui la si va ad affrontare: il vero problema, piuttosto, è che se ne saltano poche e se ne saltano sempre meno creando una desuetudine anche solo psicologica all’affrontarle. Eliminare definitivamente le riviere dalle gare di salto ostacoli potrebbe in effetti avere anche un senso: quello di recidere quel debole cordone ombelicale che nonostante tutto ancora lega il salto ostacoli allo spirito che l’ha fatto nascere. Il che non necessariamente deve essere inteso come un male, non è che si possa rimanere legati alla storia e alla tradizione per sempre: del resto la tendenza di fatto è questa, quella cioè di rendere sempre più il salto ostacoli una disciplina da laboratorio, un qualcosa di chiuso dentro impermeabili e infrangibili confini artificiali costruiti per impedire qualunque forma di contaminazione. Può piacere, può non piacere ma questa è la realtà. Per chi pensa che salto ostacoli voglia dire solo e soltanto galoppo, salto, azione, equilibrio, forza, delicatezza, aria, velocità, altezza, intesa e… natura, la riviera è intoccabile. Per chi pensa che salto ostacoli voglia dire solo e soltanto camminare da un ostacolo all’altro per scoprire quante falcate di galoppo vi sono comprese probabilmente la riviera è un ostacolo da eliminare. Obiettivamente sono tesi e opinioni degne in egual misura del massimo rispetto, entrambe contenendo una certa parte di verità. Però, al di là di quello che può pensare l’uno o l’altro tra tutti noi, con un certo disincanto non si può che prevedere questo: come le banchine, i talus, i fossi (veri) e i muri (veri), anche la riviera è fatalmente destinata a sparire, storicamente parlando. Accadrà, è praticamente sicuro.

Una parentesi, per raccontare una cosa quanto meno curiosa a proposito di ostacoli naturali e di valutazioni soggettive. Durante gli anni Cinquanta nel vasto campo ostacoli di Dublino alla Royal Dublin Society esistevano due banchine (ora completamente ‘rasate’ a zero), sulle quali bisognava salire, fare qualche falcata di galoppo e poi scendere saltando alle volte un ostacolo, alle volte nulla. Ebbene, per ciascuna delle due banchine c’era un giudice che doveva valutare il ‘modo’ in cui il concorrente scendeva dalla banchina di sua pertinenza: ma non esisteva un criterio prestabilito per farlo. Quindi lo stesso giudice poteva decidere che per il cavallo A fosse più opportuno riceversi al galoppo destro mentre che per il cavallo B fosse più opportuno il galoppo sinistro a seconda di come era stata affrontata la salita e lo sviluppo dell’azione prima del doversi ricevere… Di conseguenza assegnava i relativi punti di penalità che si andavano a sommare a quelli eventualmente riportati sugli ostacoli… Un anno è accaduto che nel barrage di una gara importante – un barrage che si faceva senza il tempo: oggi sembra incredibile ma una volta succedeva spesso – vi fossero uno svizzero, un irlandese e un italiano (sembra la barzelletta… in effetti è quasi una barzelletta!): lo svizzero entra e fa tre errori agli ostacoli; l’irlandese entra e fa zero agli ostacoli e ovviamente zero all’unica delle due banchine rimasta sul percorso; l’italiano entra e fa zero agli ostacoli… e alla banchina? Eh… il cavallo si è ricevuto a destra, peccato, sarebbe stato meglio a sinistra, pazienza, sarà per la prossima volta… Ma il bello – il bello davvero, cioè – è che nessuno ha fiatato, né gli italiani né tantomeno gli irlandesi, ovviamente. Fine della parentesi.

20 luglio 2016