Gabriella e la sua scuola speciale, tra i cavalli e il destino

Vi abbiamo parlato spesso di Gabriella Incisa di Camerana, delle sue iniziative e delle sue idee: qui adesso è lei a parlare di sé, dei suoi cavalli e della sua storia grazie ad un racconto/biografia che ha scritto ed è stato premiato come miglior elaborato del concorso che il comune di Sologno ogni anno dedica alla memoria del maestro Loris Malaguzzi

Villa Minozzo, 12 settembre 2019 – Gabriella Incisa di Camerana non è un nome nuovo per i nostri lettori: e grazie ad un suo racconto autobiografico, con il quale ha partecipato e vinto al concorso letterario dedicato al maestro Loris Malaguzzi e che si tiene ogni anno a Sologno, sull’Appennino Reggiano, potremo conoscerla ancora meglio.

Organizzato dal Gruppo Culturale Fuori dal Coro e dalla Pro Loco Paese di Sologno con il patrocinio di Comune di Villa Minozzo, il premio onora il lavoro e la memoria di Malaguzzi, un educatore fautore della pedagogia relazionale: e il 7 settembre scorso all’unanimità è stato scelto come vincitore il racconto “Una scuola speciale” di Gabriella Incisa.

Abbiamo deciso di pubblicarlo a puntate qui sul sito di Cavallo Magazine, come i racconti d’appendice di una volta: perché parla di cavalli, perché ci racconta Gabriella, perché è bello da leggere. Buona lettura!

Una scuola speciale, di Gabriella Incisa di Camerana – 1° puntata
Quando penso al tempo della scuola, mi rivedo con il grembiule nero, il colletto rigido ed un grande fiocco blu che non sapevo rifare se, per caso, giocando, passava
dallo stato solido a quello liquido, ritornando un semplice nastro setoso.

Un tempo dal sapore di gesso, banchi di legno e giochi chiassosi racchiusi dalle parentesi squillanti della campanella. Recentemente, ho saputo che il mio bidello non
c’è più, come d’altronde quell’edificio dallo scalone coi gradini di pietra grezza e il tetto di coppi rossi da cui pendevano, come spade di Damocle, nel sole freddo di fine
inverno, enormi ghiaccioli gocciolanti.

E non ci sono più nemmeno i maestri sorridenti del corpo insegnante che avevano fatto la guerra e, in qualche modo, conservavano quel sapore amaro per l’aver perso, a suo tempo e atrocemente, i compagni di scuola. Era un mondo semplice, contadino, rispettoso delle regole, dove gli anziani avevano comunque qualcosa da insegnare.

Nulla si perdeva del passato che veniva additato ad esempio, nel bene e nel male perché, comunque, si impara anche dagli errori.

Un’epoca cadenzata dallo scorrere lento delle stagioni, costellata dalle feste sul calendario coi nomi dei santi e le fasi lunari, il tutto arricchito dai proverbi degli almanacchi cistercensi.

Un’epoca che portava i semi di una ribellione fatta di capelli lunghi e gonne corte.

Di collettivi e ciclostili.

Ricordi di scuola che riaffiorano sempre, anche adesso che sono lontana, al di là del mare, in un altro paese, dove li ho portati nella stessa valigia degli abiti e dei libri.

Ho deciso di partire perché ero stanca del mio quotidiano.

Ho deciso di partire e di lasciare la mia casa, la mia famiglia, il mio lavoro e i miei amici: in pratica, tutto quello che era stata la mia vita per i primi 35 anni. Ero «nel
mezzo del cammin di nostra vita» e la bussola che indicava un’altra via mi portava non in selve oscure ma tra le dune del deserto nordafricano.

La parola Sahara, che in arabo vuol dire «vuoto», ha anche il significato di «verità».

Ma il Sahara non è solamente quella piatta distesa che le parole possono evocare: un’incredibile ricchezza di forme e colori, di vita e storia si nascondono all’interno di
questo sorprendente «non-essere».

Ho scelto la Tunisia per caso, tirando dei bussolotti di carta piegata messi in un cappello di paglia.

Sopra ciascuno di essi, scritto a penna, il nome di un paese, di una diversa destinazione per delle vacanze estive che non facevo da tempo, presa com’ero
dalla frenesia del fare.

Per ben due volte la sorte mi offrì lo stesso bigliettino: la Tunisia.

Rimasi allibita dalla casualità e decisi di partire. Gli arabi lo chiamano «maktub», il destino.

Era un viaggio carico di significati, di fatalità che mi riportavano ai ricordi liceali del periplo di Didone e, come lei, atterrai a Quart Haddash, la «nuova città».

Come Didone, che fondò Cartagine là dove trovò la testa di un cavallo, che per i Fenici era un animale simbolo di forza e potenza, trovai anch’io un cavallo, dal mantello niveo.

Un cavallo di razza berbera, il cui nome, Onci, in arabo significa «Colui che allevia la tua solitudine».

Io mi sentivo tanto sola in quel periodo, e lui riempì i miei vuoti insegnandomi anche a farlo per gli altri.

Ho incrociato il suo sguardo in quel lontano settembre del 1992, dal primo giorno della mia vacanza a Mahdia, sulla costa tunisina.

E in quegli occhi mi sono persa, al punto da non lasciarlo più: con lui e altri nove cavalli, in un piccolo recinto, ho dato vita ad un centro ippico inizialmente a semplice vocazione turistica.