Il cavallo del dottore


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Milano, 5 novembre 2019 - Oggi pomeriggio ho ritrovato in una vecchia borsa di pelle un foglietto ciclostilato, lungo e stretto, con una poesia: è intitolata Il cavallo del dottore, e trovo che sia perfetta per questi giorni di tempo grigio e di attesa sospesa nella nebbia. Perché il foglietto ricordo bene di averlo scovato anni fa in mezzo ad uno dei libri di un caro amico che non c'è più, Giorgio Martinelli: giornalista equestre, ippologo per passione e magistrale divulgatore di ogni emozione che si possa collegare ad un cavallo per elezione. Perché ogni anno, prima di quel grande rito collettivo che è Fieracavalli, è inevitabile pensare anche a chi non incontreremo più tra là, tra i cavalli, in carne e ossa; quindi mi ha colpita questa fogliolina fatta dei pensieri di uno sconosciuto E.M., che sono così vicini ai miei, ai nostri, e capitano in un momento così ben scelto. Quindi ve la riporto di seguito, perché dentro ci sono tutte le cose che per ognuno di noi sono collegate ai nostri cavalli: il ricordo di chi ci ha insegnato qualcosa, le sensazioni di pace che solo i cavalli sanno dare, le foglie dell'autunno che tornano sempre a scaldarsi di colori incredibili, le infinite occasioni in cui un cavallo è stato fondamentale nella nostra vita, o per la vita di qualcuno che era su questa terra prima di noi. E perché richiama fortemente anche una storia attuale, quella del dottor Roberto Anfosso che i suoi malati, in Piemonte,  li va a trovare in sella alla saura Ambra: a riprova del fatto che  i cavalli hanno l'incredibile capacità di essere sempre uguali a se stessi ma sempre così giusti, adatti ad ogni epoca e capaci di starci vicini. Noi semplicemente continuiamo con loro una storia cominciata tanto, tanto tempo fa: quando si aspettava con le orecchie tese il suono della speranza, che poteva essere anche quello del passo del cavallo del dottore. Il cavallo del dottore Ho inchiodato alla porta, in cerca di fortuna per la mia casa, un ferro di cavallo. Consunto dalla polvere, scavato dal sudore e bruciato dal sole quel vecchio ferro contorto mi ha raccontato la storia ed ha suonato per me, sull'arpa incantata dei ricordi, la musica lontana delle nostre radici. Voglio assaporare ancora, con la brezza dei fiumi, quel soffice suono di zoccoli allegri sui verdi sentieri profumati di violette ed anche il canto dell'acqua quando si passa il guado. Voglio ascoltare nel bosco lo strisciante fruscio della coperta di foglie secche che la terra per riposare si è buttata sulle spalle o i tonfi opachi e pieni di silenzio sulla neve fresca e poi il crocchiare dei passi sulla neve gelata o le martellate secche che sprizzano scintille sulle mulattiere di montagna. E se la strada mi rimanda l'eco lontana di due cavalli al passo io mi chiedo chi sono: padre e figlio? Due amici? Un giovane e una ragazza? Forse una storia d'amore che nasce. Ancora è tanta l'angoscia per quel terribile tuono sordo ed immenso di mille zoccoli disperati all'ultima carica nelle balke di Isbuscenski o per l'andatura desolata della cavallina di Pascoli che ritornava sola al tramonto in quella strada di Romagna diritta e polverosa. Penso a infinite generazioni di povera gente affamata nei casolari sperduti che, muta, aspettava con le orecchie tese accanto al padre morente di udire il suono della speranza: il passo stanco del cavallo del dottore. E.M. 14 giugno 1984