Umbria: sulla Via di Stade, tra ricordi di monaci e ulivi pievesi

Suggerimenti di viaggio tra le colline umbre sulle tracce di antichi pellegrini e tra paesaggi ricchi, e dolci nello stesso tempo: uno sguardo su Città della Pieve, per dove passa l’antica Via Romea Germanica o di Stade

Perugia, 16 agosto 2019 – Chiunque arrivi in Umbria e abbia almeno un poco la passione per l’equitazione lo pensa, è inevitabile: questa è una regione che sembra fatta apposta per essere girata in sella.

Una rete di strade bianche e sentieri da far impallidire l’asfalto di qualsiasi tangenziale, dislivelli mediamente non troppo bruschi, abbondanza di vegetazione e boschi che regalano l’ombra necessaria anche nelle estati più torride, paesaggi sereni che gli uliveti arricchiscono del loro argento, così tranquillizzante e silenzioso.

Ma quale scegliere, tra i tanti percorsi possibili da tracciare passando per gli infiniti piccoli borghi umbri? Ci siamo fatti consigliare dagli esperti locali che, da veri intenditori, ci hanno fatto cominciare da uno dei più antichi: la Via di Stade, quella descritta dal monaco tedesco Alberto negli anni immediatamente successivi al 1230 in un testo scritto sotto forma di dialogo (piuttosto divertente: i protagonisti si chiamano Tirri e Firri) tra due monaci viaggiatori.

La nostra guida è Andrea Possieri, del centro ippico Il Cavacchione di Città della Pieve: «In Italia è meglio conosciuta come Via dell’Alpe di Serra o Via Romea Germanica, da uno dei passi più importanti che scavalca sugli Appennini» ci spiega Andrea «ma è una antica via romea che parte dalla cittadina di Stade, nei pressi di Amburgo e tocca Innsbruck, Bressanone, Bolzano, Trento poi il Veneto e la Romagna arriva all’Alpe di Serra. Da lì scende verso Arezzo, arrivando poi sul nostro territorio».

Qui l’antica strada passa per Castiglione del Lago e Città della Pieve proseguendo poi per San Pietro Acqueortus, Acquapendente, Orvieto, Viterbo e infine Roma: un itinerario da sbocconcellare come si vuole, in più tappe serrate o gustandoselo un pezzettino alla volta, che tanto le pievi che si incontrano lungo il tracciato sono lì da otto secoli e probabilmente non si muoveranno troppo facilmente dagli angolini dove le hanno costruite.

Piccole, domestiche viene da pensare eppure così garbate nei loro dettagli gentili: come il piccolo eremo francescano di Santa Maria degli Angeli, fatto dei rossi mattoni per cui andava famoso l’antico Castel della Pieve. Ha un campanile a vela alto e svelto come un ragazzino e cornici dal disegno semplice ma garbato che lasciano tutta l’attenzione al rosone in cotto che orna la facciata, gotica ma non troppo.

Dentro una serie di affreschi coevi alla stesura del nostro ideale manuale di viaggio (“Annales Stadenses Auctore Alberto”, conservato ad Hannover) e che rappresentano, per lo più, Madonne del Parto: erano gli ex-voto delle madri felici (o di quante speravano di esserlo) in quei tempi dove mettere al mondo un bambino era pericoloso tanto quanto intraprendere un viaggio da Amburgo a Roma.

Ma torniamo alla pace di queste giornate di inizio estate: i cavalli si godono la passeggiata tanto quanto i nostri amici umbri (Andrea, Fabio, Ermes, Marco e Stefano), che conoscono questi sentieri da quando erano ragazzini scapestrati e che adesso amano ripercorrerli in sella, forse anche per unire ai ricordi che li legano da sempre a questi posti la passione adulta per il cavallo, e la bellezza delle ore che si possono passare con lui.

Li guardiamo passare tra le ginestre fiorite di fresco, in mezzo a uliveti curati come giardini e poi tornarsene rilassati verso casa che tanto anche la prossima domenica si potrà uscire a riempirsi gli occhi di queste bellezze: e magari riusciremo ad essere con loro per sentir risuonare sotto i piedi del nostro cavallo le pietre di questa strada antica, che arriva da così lontano.

Il Cavacchione: un circolo di amici

I cavalieri che fecero la passeggiata: ci viene da cominciare così, un po’ scherzosi e un po’ no, a parlare degli amici pievesi.

Perché loro sono esattamente questo, un gruppo di amici che ha riunito i propri cavalli in un posto perfetto per mettere loro la sella e uscire fuori insieme. A pochi metri dalla via Romea che porta ancora oggi fino alla Città Santa per chi ha la pazienza di seguirla, sospesi tra la Val di Chiana e il profilo ancora rinascimentale della loro Pieve: un posto dove si sta bene, semplicemente. L’itinerario pievese della Via di Stade è stato da loro ritrovato e ripercorso già dal 2013, e tracciato sotto il nome di Via delle Chiese. Il progetto di cura e diffusione di questo sentiero nel suo tratto pievese è stato presentato alla Mostra Nazionale del Cavallo di Città di Castello nel 2014, a cura dell’Associazione Culturale PieveCavalli.

Il Ducato di Salci

Uno dei paesi più particolari toccati dal percorso è quello di Salci, minuscolo borgo fortificato oggi appartenente al comune di Città della Pieve ma una volta feudo pontificio, ed eretto a ducato da papa Pio V (quello che, ancora cardinale, ordinò le stragi dei Valdesi in Piemonte e Calabria) nel 1568.

Il titolo venne concesso a Lucrezia Bandini, ultima erede della famiglia cui il feudo apparteneva: probabilmente già in età matura al momento dell’investitura, la duchessa morì senza figli appena due anni dopo.

Al che il piccolo ma strategico ducato venne (casualmente…) ereditato dal nipote piemontese di papa Pio V, Michele Bonelli: la peculiarità di Salci era non solo quella di trovarsi al confine tra lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana e il Marchesato di Castiglione del Lago (ottimo per trafficare con gli uni e con gli altri, e ospitare fuggiaschi in cerca di opportuna protezione) ma aveva anche il diritto di battere moneta, legiferare in proprio, tenere una prigione e amministrar giustizia.

Le mura di Salci oggi proteggono un paesino deserto: il palazzo ducale con le sue finestre a sesto acuto, la porta di accesso con l’orgoglioso stemma dei Bonelli in marmo bianco incassato tra i mattoni rossi, la loggia con l’affresco ormai sbiadito che era passaggio tra il palazzo dei signori e il matroneo della chiesa parrocchiale, dedicata a San Leonardo aspettano che qualcuno si ricordi di loro, già feriti da uno scempio speculativo immobiliare degli anni ’80 e ormai finiti dall’incuria e l’abbandono degli ultimi vent’anni.

Eppure gli abitanti di Salci dovevano essere intraprendenti, capaci di uscire dalle sue piccole mura: qui era nato Achille Piazzai, l’ingegnere navale che progettò il Rex, orgoglio della marineria italiana varato nel 1931 e vincitore del prestigioso Nastro Azzurro nel 1933.

Vittoria Guerrieri, la figlia del Re e della Bela Rosin

Un’altra personalità legata alla Pieve e a Salci è stata Vittoria, figlia di Vittorio Emanuele II e Rosa Vercellana, sua amante storica e poi moglie morganatica una volta che il Padre della Patria rimase vedovo della mite Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena.

Sentimentalmente piuttosto vivace, Vittoria Guerrieri (era questo il cognome di solito attribuito ai numerosi figli naturali del re, che veniva chiamato “Padre della Patria” non solo per aver mantenuto gli Statuti Albertini ed essere stato il primo re d’Italia ma anche per la generosità con cui seminò il suo Dna nella Penisola) era stata sposata ad un marchese Spinola prima, e una volta vedova al fratello maggiore dello stesso poi. Ma Vittoria lo abbandonò presto per tale Paolo de Simone, per niente nobile ma parecchio più giovane: lei acquistò la tenuta e il paese di Salci dagli ultimi Bonelli, spendendo una quantità impressionante di danari per trasformare una casa colonica attigua in castello.

Presto costretti dalle spese senza fine ad abbandonare il piccolo ex-ducato, si trasferirono alla Pieve dove comprarono un palazzo, una villa appena fuori il paese e una tenuta che venne immediatamente goticizzata e chiamata Castelluccio Palusse, in onore del vezzeggiativo che Vittoria usava per il suo Paolo.

Qui si misero ad allevare cavalli Purosangue, coltivare fiori esotici nelle serre ed avviare svariate produzioni di pasta, candele, sapone: ma la buona volontà non era pari alla competenza, e in pochi anni Vittoria e Paolo furono costretti ad abbandonare tutto e ritirarsi a Roma.

Vivevano in un modesto appartamento di piazza Esedra e morirono praticamente in miseria, lei di polmonite e lui suicida poco tempo dopo.