Allevato come si deve: il Purosangue Inglese

Una delle storie più affascinanti di tutta l’ippologia mondiale, quella che è raccontata dai cavalli creati apposta per correre veloci, sempre più veloci: i Purosangue Inglesi, creature eleganti nelle forme e fatte d’acciaio nella sostanza

Bologna, 10 febbraio 2019 – La storia di quello che noi chiamiamo Purosangue Inglese, e che nel suo paese di origine viene definito “Thoroughbred” (letteralmente: allevato come si deve) è molto complessa da raccontare perché le singole individualità di ogni riproduttore, stallone o fattrice che fosse, hanno contato infinitamente più di quanto successo comunemente nelle altre famiglie equine.

Tutto nasce dalla serietà con cui in Inghilterra sono considerate le corse: famiglia reale in testa e alta società a seguire ne sono stati i più grandi sponsor da sempre (la prima corsa regolare in piano era del 1174 a Smithfield, vicino Londra), e mezzi e passione sono stati dedicati senza risparmio a questo spettacolo che coinvolgeva il resto degli inglesi come spettatori direttamente partecipanti, grazie alle scommesse.

L’esigenza di rendere queste ultime il più possibile eque rese indispensabile l’adozione di un sistema di attribuzione dei pesi da portare in sella a seconda del sesso e dell’età del cavallo, in modo che tutti avessero la stessa possibilità di vittoria. I vincitori: è su di loro che è stato costruito il Purosangue Inglese, senza preoccuparsi mai di nessuna altra caratteristica morfologica, estetica, o genealogica.

Lo Stud-Book Generale della razza, pubblicato la prima volta nel 1791 da James Weatherby su incarico del Jockey Club (che curava già dal 1750 i calendari delle corse), riportava i pedigree di duecento soggetti tra fattrici e stalloni i cui prodotti avevano vinto. Molto spesso si trattava di discendenti di Royal Mares e alcuni stalloni di origine orientale che si dimostrarono formidabili razzatori: ognuno di loro produsse nel giro di pochissime generazioni uno stallone tanto significativo da lasciare impressa la sua impronta genetica in tutti i cavalli oggi esistenti, anche grazie allo stretto inbreeding che inizialmente gli allevatori praticarono su alcuni soggetti particolarmente preziosi. Riuscirono così a fissare in pochissime generazioni le loro caratteristiche positive mentre quelle negative si autoeliminarono altrettanto velocemente, visto che i perdenti non erano messi in allevamento.

La regolarità secolare delle corse classiche ha fatto il resto*. Il Derby e le Oaks, di Epsom, il St. Leger, la Coppa d’oro di Ascot solo per citarne alcune – riunioni tenute invariabilmente da secoli nello stesso giorno, sulla stessa pista, sulla stessa lunghezza, con lo stesso peso da portare in sella hanno formato una trama regolare e solida sulla quale i discendenti di tre stalloni orientali e una settantina di Royal Mares hanno ricamato ognuno la propria storia, ancora ben leggibile nei documenti ufficiali e nel sangue dei cavalli che galoppano sotto il nostro stesso sole.

Una così stretta dipendenza tra condizioni necessarie all’allevamento e realtà sociale, economica e politica ha fatto in modo che il Purosangue Inglese sia divenuto molto spesso lo specchio più limpido della società in cui era nato: come Ribot ad esempio, il campione postumo di Federico Tesio nato nel 1952 da Tenerani e Romanella che era la metafora perfetta dell’Italia del dopoguerra.

Ribot era un cavallino di taglia piccola, dalla coda ben poco elegante, con nulla di imponente nell’aspetto e nemmeno Federico Tesio (morto quando Ribot aveva due anni) era rimasto particolarmente colpito da quel puledro striminzito. Senza orpelli, senza fronzoli era semplicemente costruito in modo perfetto per il suo lavoro e solo il suo sguardo tradiva quella tranquilla sicurezza in se stesso e nella sua forza, che avrebbe schiantato tutti gli avversari che provarono a batterlo. Il suo giro di cinghie era impressionante – quindici centimetri più degli altri puledri – l’unico suo problema era quello di coprire troppo col posteriore (aveva una distanza di 20 cm. tra l’arcata costale e la spina iliaca, di qui la sua potenza) e quindi raggiungersi spesso, galoppando a volte un po’ risentito.

Ma una volta trovata la soluzione al problema (una ferratura più leggera, con solo cinque chiodi invece dei sette tradizionali) la sua azione al galoppo incanta tutti, inchioda gli avversari dietro di lui e gli fa inanellare una serie di vittorie impressionanti figlie della sua superiorità sia fisiologica che psichica. Ribot aveva un grande istinto per la corsa, una impressionante serietà professionale in campo unita a una bella dose di sfacciataggine durante il tempo libero. Si permetteva di tirare qualche scherzo terribile anche a un fantino di vaglia come Enrico Camici, che lo accompagnò alle vittorie più prestigiose: durante la sua passeggiata di addio all’Ippodromo delle Capannelle, che non era chiaramente una corsa ma solo una noiosa incombenza sociale, fece volare Camici per le terre con una sgroppata da manuale.

E non era la prima volta: anche in allenamento Ribot era un soggettino che si prendeva parecchie libertà. Aveva un amico amatissimo, il suo coetaneo Magistris, che facevano viaggiare regolarmente con lui per tenergli compagnia. L’unico trasferimento in cui non lo seguì fu quello verso gli Stati Uniti: anche Ribot emigrò per lavorare negli States, come tanti altri italiani prima e dopo di lui.

Non tornò più indietro, nel Kentucky se lo tennero ben stretto: risultò capolista degli stalloni come padre di fattrici in Inghilterra negli anni 1963,1967 e 1968.

Ce ne sarebbero così tanti da raccontare, di questi magnifici cavalli nati per il galoppo: la capricciosa Signorina e il suo amato Chaleureux, Bellini goloso e intelligente, la piccola Pretty Polly che si trasformò da pony lanoso in una formidabile vincitrice con un debole per gli applausi e il suo piccolo compagno di scuderia Jooey, Nearco bellissimo e grande trasmettitore del più perfetto inbreeding su St. Simon, il piccolo e formidabile Hyperion sempre gentile e di buon umore oppure lo sgraziato Whalebone, così poco elegante ma che si ritrova in tutte le genealogie degli ultimissimi campioni.

Non possiamo raccontarli tutti qui: ma sono ancora vivi dentro moltissimi cavalli di oggi, molto probabilmente anche quelli che montate voi tutti i giorni visto che la maggior parte delle razze da sella ha goduto dell’apporto del loro sangue.

Cercateli tra gli antenati del vostro cavallo: sentirete di fare parte di questa lunga, incredibile avventura che ha unito per sempre la storia dell’uomo a quella di una intera razza. E nessuno dei due oggi, senza l’altro, sarebbe lo stesso.