Ferdinando Acerbi: una vita vissuta

L’intervista con il cavaliere azzurro che qui pubblichiamo è uscita sulle pagine cartacee di Cavallo Magazine lo scorso mese di aprile; a chi non l’avesse letta allora consigliamo vivamente di non perderla adesso: il contenuto è piuttosto forte…

Bologna, 17 novembre 2016Oggi è il compleanno di Ferdinando Acerbi (51 anni), uomo che nella sua vita di cavaliere ha vissuto anche un lungo e determinante… intervallo navigando a vela sui mari del mondo. Prima di questo intervallo Acerbi è stato atleta di punta del completo azzurro vivendo ai Pratoni del Vivaro la preparazione a ben tre Olimpiadi senza tuttavia prendere parte nemmeno a una a causa di varie circostanze sfortunate. Dopo questo intervallo invece è tornato a essere atleta di punta ma nella specialità del paradressage, per la quale ha partecipato insieme a Sara Morganti, Francesca Salvadè e Silvia Veratti alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro sotto la direzione tecnica di Laura Conz. L’intervista che segue è piuttosto lunga: non è stata realizzata per il sito internet di Cavallo Magazine, bensì per le pagine cartacee di Cavallo Magazine (n. 353, aprile 2016), ma vale davvero la pena di leggerla – o di rileggerla – perché il contenuto è veramente… forte, sotto tutti i punti di vista.

di Umberto Martuscelli

Ferdinando Acerbi è un uomo intelligente. L’intelligenza è una forma di libertà: forse la migliore libertà di cui dispone l’essere umano. Ferdinando Acerbi il 13 gennaio 2004 è stato l’eroico protagonista di un incidente che lo ha menomato gravemente nel fisico: ma siccome è una persona intelligente, Ferdinando Acerbi è riuscito a trasformare in punto di forza quello che sarebbe dovuto essere un limite.

Lei è stato un eccellente cavaliere in completo: ha vinto medaglie, ha vissuto ai Pratoni del Vivaro, ha fatto tre preparazioni olimpiche, è stato il tecnico della squadra juniores… Poi si è staccato totalmente dal mondo dell’equitazione: perché?

«Mi ricordo benissimo il mio ultimo concorso: a Birago nel 1996. Poi basta. Per mancanza di motivazioni, sostanzialmente Mi erano andate male un paio di cose, ero entrato in polemica con la Fise … avevo la sensazione di aver già fatto tutto quello che avrei potuto fare a livello agonistico. Poi io sono dell’idea che una gara la si fa per tentare di vincere, non per far numero… e sapevo che purtroppo sarebbe stato molto difficile rimanere competitivo come io avrei voluto. Così basta. Per fortuna ho avuto lo possibilità di fare un mestiere subito dopo che mi ha permesso di continuare a vivere una vita ugualmente sportiva».

Quindi il mare…

«Sì, il mare. Una passione che mi ha trasmesso mio padre e che ho sempre avuto: anche quando montavo a cavallo le mie vacanze volevano dire andare a fare l’istruttore subacqueo in qualche villaggio turistico. Una volta smesso di montare a cavallo il passaggio definitivo e totale al mare è stato ovvio e naturale».

Ma è stata una cosa così immediata? E come si è concretizzata?

«Immediata, sì. Con mio padre abbiamo affittato una barca per poi gestirla professionalmente: lui voleva arrivare alle isole Dahlak, nel Mar Rosso. Quando siamo arrivati a Suez però è scoppiata la guerra tra Eritrea e Somalia, e a quel punto non sapevamo più cosa fare… Per fortuna avevo un contatto con una persona in Yemen: lui mi ha detto prova a venire qui e vedi se ti piace il posto. Andare lì, vedere il posto e rimanerci per sei anni e stato tutt’uno… ».

Caspita, sei anni… Trascorsi e vissuti come?

«Facendo l’istruttore sub e lo skipper di una barca a vela con la quale portavo in giro la gente, detto in estrema sintesi. Io facevo praticamente da agenzia: organizzavo il viaggio per i clienti da terra e fino all’arrivo a bordo».

Ed è stato in questa fase della sua vita che è accaduto il suo incidente?

«Più o meno. In realtà in una fase successiva. A seguito dell’attentato alle Torri Gemelle a New York lo Yemen non è più stato un posto molto appetibile per i turisti: dopo una media regolare di trecento, trecentocinquanta subacquei all’anno sono arrivato a diciotto… Così ho telefonato ai Viaggi del Ventaglio, la società con la quale collaboravo, per dire che forse sarebbe stato il caso di darmi una mano a spostarmi, e loro mi hanno dirottato su Sharm el Sheik. Dopo un po’ di tempo è arrivato anche un mio amico dallo Yemen con il quale abbiamo costituito una società nostra, indipendente, e siamo subentrati nella gestione di un centro diving presso un hotel: e lì facevamo solo attività subacquea».

Quindi è qui che accade tutto, giusto?

«Sì, il 13 gennaio del 2004. Io venivo da un periodo di grande stress di lavoro accumulato durante le vacanze di Natale, quando ero andato in acqua davvero tantissimo. Ma in più poco prima c’era stata la tragedia dell’aereo precipitato in mare dopo il decollo da Sharm (il 3 gennaio, un Boeing 737 della compagnia egiziana Flash Airlines: non si salvò nessuno, per un totale di 148 morti, n.d.r.) e io ho collaborato alla ricerca dei resti facendo immersioni molto profonde. Nel frattempo avevo in vacanza un gruppo di russi che venivano da me ogni anno, ma con i quali non ero mai potuto uscire in barca a causa dell’emergenza sulla tragedia dell’aereo precipitato. Li vedevo la sera al bar e mi facevo raccontare la loro giornata. Senonché l’ultima sera della loro vacanza coincideva con la fine di quel lavoro tremendo: loro mi chiedono cosa fai domani, io dico vado al diving a fare i corsi, loro mi dicono ma no, dai, vieni in barca con noi, è l’ultimo giorno, dai… insomma, alla fine mi sono fatto trascinare e l’indomani sono uscito per andare in acqua con loro. Poi non avevo molte preoccupazioni, perché erano tutti molto esperti. Però a un certo punto al termine di un’immersione mi accorgo che manca una persona: quindi vado a cercarla. Vedo salire delle bolle d’aria dal fondo: scendo giù e trovo l’uomo che mancava… Lo trovo a circa ottanta metri di profondità in posizione di stallo. Gli faccio un segnale per dire guarda che tu sei senza aria, dobbiamo andare fuori, e lui solleva la testa e alza le mani, e in quel momento perde l’erogatore dalla bocca… Io glielo rimetto in bocca e tenendolo attaccato a me inizio a salire, gonfio tutto e risalgo. Intorno ai quaranta metri mi è sembrato che lui riprendesse a dare segni di indipendenza nel respiro e nel guardarsi attorno, così mi sono fermato lì per circa tre minuti. Ma lui ha nuovamente perso l’erogatore: allora io gli ho infilato il mio di scorta e sono risalito subito. Una volta sulla barca ho avuto il tempo di togliergli la muta, fargli le compressioni e mettergli l’ossigeno per cercare di rianimarlo ma… poi non ricordo più niente».

Ma tecnicamente parlando cosa è successo?

«Ho avuto un’embolia gassosa: sono arrivato in superficie troppo in fretta senza aspettare che l’azoto in eccesso venisse smaltito dalla circolazione, per cui il gas si è espanso e… sono partiti degli emboli che mi hanno procurato una lesione del midollo spinale».

Ma lei era consapevole del rischio che stava correndo con quella risalita?

«Certo, ovviamente sì, ma… un rischio tra l’altro inutile perché poi lui è morto, probabilmente era già morto durante la risalita, francamente non lo so… I libri dicono che avrei dovuto attaccargli un palloncino e andarlo a recuperare dopo due ore, la pratica invece dice che quando vedi qualcuno in quello stato ti viene l’istinto di portarlo fuori… ».

Lei quindi non ricorda più nulla di quel momento.

«No. Dopo circa nove ore mi sono risvegliato in camera iperbarica e da lì sono uscito camminando per cui pensavo di essermela cavata. Invece quella stessa notte ho avuto una ricaduta, più che altro direi un crollo, al termine del quale mi sono ritrovato completamente paralizzato. Tetraplegico».

Non muoveva più né braccia né gambe…

«Esatto. Poi dopo un po’ di tempo la parte superiore del corpo si è sciolta, e pian piano c’è stato qualche progresso anche in tutto il resto. Ho passato due anni in carrozzina: potevo sollevarmi con due stampelle ma muovendomi all’interno di spazi molto ristretti. La mia fortuna è stata quella di poter andare in Belgio per curarmi da un medico che ha una clinica di riabilitazione specializzata nel recupero di sportivi vittime di gravi incidenti, e di questo devo ringraziare mia moglie… Sono rimasto lì per sei mesi tra Anversa e Bruxelles. Questo medico mi ha praticamente smontato e rimontato. L’ultimo periodo non andavo a casa nemmeno per dormire: stavo in palestra ventiquattro ore su ventiquattro, vivevo lì dentro. È stata durissima. Durissima. Dirò di più: se io non avessi fatto lo sport che ho fatto nel modo in cui l’ho fatto nella mia vita, non sarei mai riuscito a venirne fuori. Mai. Soprattutto dal punto di vista psicologico».

Ecco, psicologicamente: da questo punto di vista quali sono stati gli elementi che le hanno dato la forza per affrontare un dramma del genere?

«Di sicuro l’incoscienza e la voglia di vivere una sfida. Di viverla fino in fondo. Applicando le stesse tecniche che ho imparato durante la mia vita a cavallo. Tanto per fare un esempio banale, saltare per la prima volta un ostacolo di un metro e cinquanta dà una sensazione bellissima, poi però per fare tutto un percorso a quel livello e magari per vincere una gara bisogna concentrarsi sui miglioramenti in piccoli spazi, nelle piccole cose, nei dettagli. Se io mi alzo dalla carrozzina ho la sensazione di benessere al cento per cento per il solo fatto di essermi alzato, dopo però devo imparare ad accontentarmi dell’un per cento quotidiano che mi porta verso il risultato finale. E questo io l’ho imparato grazie ai cavalli».

Però non sarà stato sempre facile come dirlo…

«Non è facile, non è facile per niente. Se però adesso io dovessi descrivere una sensazione negativa non saprei cosa dire. Ovvio che ho passato le mie crisi, ho pianto, mi sono disperato, ho battuto la testa contro il muro, però in realtà lo spirito di fondo è sempre stato quello di dire no, ne ho vinte tante, vinco anche questa».

Attualmente la sua è una situazione stabile o possibilmente in miglioramento?

«No, adesso è stabile. Io cammino con un bastone, ovviamente con i miei tempi e con i miei modi, non ho la sensibilità agli arti inferiori e gestisco il dolore, però cerco di fare una vita più normale possibile».

Sente di appartenere totalmente a questa situazione oppure in lei convivono le due dimensioni, quella del prima e quella del dopo?

«Io mi sento sempre il Ferdinando di vent’anni fa. E mi impongo di continuare a esserlo. Solo che lo sono con mezzi diversi. E credo che sia la cosa più importante perché quello che salva è continuare a essere sé stessi, a fare le cose con la stessa voglia, a viverle con lo stesso entusiasmo. È più faticoso, certo, ma alla fatica ci si abitua, come anche al dolore».

Dopo essersi stabilizzato fisicamente non ha mai preso in considerazione lo sport paralimpico?

«In realtà no. L’attrazione che ho sempre avuto per il mare non è affatto diminuita dopo l’incidente, quindi la mia prima reazione è stata quella di costituire un’associazione insieme a mia moglie denominata “Ancoramare”: abbiamo preso una barca e abbiamo fatto un giro d’Italia in varie tappe per promuovere la cultura sportiva come mezzo di riscatto per persone che hanno avuto problemi di carattere fisico. E per far capire e vedere che la vita può andare avanti come prima, seppure in maniera diversa. Abbiamo alimentato l’attività dell’associazione appoggiandoci ai villaggi del Ventaglio, proponendo la nostra escursione ai clienti e promuovendo i contenuti della nostra attività. Dopodiché ammetto di aver voluto fare il passo più lungo della gamba: ho deciso di fare la traversata dell’oceano Atlantico per fare la stagione ai Caraibi ma una volta lì ho dovuto mio malgrado prendere atto del fatto che non ero più… alto biondo e con gli occhi azzurri, tanto per dire. E così abbiamo dovuto smettere. Però nel frattempo ho scritto un libro, che si intitola appunto “Ancoramare”… ».

Non solo: lei ha dato vita anche a Henable.me…

«Certo. Ritornando a una vita più normale, nel quotidiano di tutti i giorni, mi sono accorto che per poter godere del beneficio dei diritti che mio malgrado mi spettavano, e dei quali avrei fatto volentieri a meno, sarebbe stato necessario un iter burocratico mostruoso. Da qui è nata l’idea della cooperativa sociale che abbiamo battezzato appunto Henable.me il cui fine ultimo è quello di inserire nel mondo del lavoro persone disabili attraverso le tecnologie digitali. Praticamente noi digitalizziamo operazioni quotidiane che il disabile deve affrontare per interagire con il resto del mondo, le trasformiamo in applicazioni e offriamo dei servizi verticali volti al miglioramento dell’accessibilità da parte delle persone disabili. Una cosa sulla quale ho investito a tempo pieno gli ultimi tre anni della mia vita e che adesso sta dando i suoi frutti. È un argomento che soprattutto in momenti di crisi ha più appeal, è un argomento che permette l’inserimento nel mondo del lavoro di persone che magari oggi non sono considerate come risorse e invece altroché se lo sono! È ovviamente un argomento che mi appassiona: lo porto avanti con molto orgoglio e molto entusiasmo. Noi riceviamo proposte da persone che manifestano il loro disagio o la loro idea di soluzione per tale disagio; quando riteniamo che una cosa possa essere digitalizzabile la progettualizziamo e la rimettiamo sulla piattaforma in modo che venga votata dalla community: quelle che vincono questa sorta di contest vengono prese in carico, cerchiamo i soldi per finanziarle e ne creiamo un prodotto».

Però in tutto questo i cavalli non sono mai più ricomparsi…

«Già. Fino a un giorno del 2005 quando sono andato a Roma a trovare Giovanni Fabi, mio carissimo amico (eccellente cavaliere di completo a sua volta, n.d.r.) che mi era stato particolarmente vicino nei momenti difficili. Cosa facciamo cosa non facciamo… siamo andati a pranzo ai Castelli e da lì l’idea di fare un salto ai Pratoni del Vivaro è stata un attimo. Siamo andati a scovare Albino Garbari che se ne stava rintanato da qualche parte: naturalmente lui mi ha fatto un sacco di feste e poi mi ha detto adesso ti faccio montare a cavallo… Sì, figurati, gli ho detto io. E lui: se ho messo su il marchese Mangilli posso mettere su anche te! E l’abbiamo fatto. E io ho pensato che fosse una cosa meravigliosa… ».

Ma non c’è stato un immediato seguito a quel momento.

«In effetti no. La ripresa è cominciata alla fine del 2015 il giorno in cui ho portato mia figlia a montare da Paolo Segolini, altro mio caro amico. A un certo punto lui tira fuori questa cavallina dicendomi è talmente buona che potresti montarla anche tu… poi abbiamo bevuto una birra, ne abbiamo bevuta un’altra, una chiacchiera tira l’altra, alla fine mi sono ritrovato in sella. Ovviamente scattata la foto e postata su Facebook… Dopo due giorni mi chiama Chiara Fabi che mi dice mah, secondo me potresti… sarebbe anche un bene per lo sport… perché non ci fai un pensierino… Poi mi sono trovato a pranzo con Laura Conz, abbiamo parlato, io ho detto ok, lo faccio ma con riserva, devo vedere, valutare, trovare una forma di sostenibilità, ma la voglia di mettermi in gioco c’era eccome. Anche perché tutto quello che ho fatto nella mia vita lo devo allo sport. E anche il fatto che io oggi possa e riesca a gestire la mia vita quotidiana come ho fatto e come sto facendo lo devo esclusivamente alla disciplina sportiva che ho imparato facendo sport professionistico».

Dati tutti i presupposti non sarà certo una cosa che lei affronterà come passatempo, no?

«Adesso sono ancora nella fase in cui sto… annusando la situazione, diciamo, nonostante tutto l’entusiasmo che ho attorno che peraltro mi fa molto piacere, ma sono ancora nella fase che… insomma, diciamo la verità, non è per niente facile: fa male, fisicamente fa tanto male. La gestione del dolore è l’aspetto preponderante. La mia sfida oggi è quella di arrivare a dire riesco a gestire il mio corpo in maniera tale da avere un risultato utile. Perché quello che c’è da fare dentro un rettangolo lo so fare, ovviamente… non è tanto quello il problema».

Il dolore è davvero così forte?

«Sì. Sì. Molto. La posizione, salire e smontare… è strano da dire, lo so. Si pensa che quando uno è paralizzato non senta: invece il male si sente, eccome. È un dolore neurologico che dura ventiquattro ore su ventiquattro e che si deve imparare a gestire. È come se le gambe fossero dolorosamente informicolate, come se fossero immerse nel ghiaccio secco. Una cosa del genere».

È una cosa tecnicamente superabile, scongiurabile, o no?

«Non lo so. Ma non credo».

Verrebbe da chiederle chi glielo fa fare… Forse perché si tratterebbe di un’ennesima sfida?

«Lo faccio prima di tutto per riconoscenza nei confronti di questo sport, che mi ha dato davvero tanto. Lo faccio perché mi accorgo di avere attorno tutti i miei amici… Me ne sono reso conto quando qualche giorno fa Michele Betti (che sta in Germania, n.d.r.) è venuto apposta per vedermi camminare al passo mezz’ora. Perché la Chiara Cannavale mi ha messo a disposizione un cavallo così, perché le fa piacere farlo… Insomma, mi sento… non so, evidentemente nella mia vita precedente ho dato qualcosa a questo ambiente e a questo sport, e adesso trovo giusto continuare a farlo nei limiti del mio possibile. E forse la mia immagine può essere utile in questo momento. Anche se devo riconoscere che dentro di me, dentro lo spirito di Ferdinando Acerbi, montare a cavallo vuol dire fare un cross o saltare un muro di un metro e novanta… In realtà fare una ripresa di dressage anche solo al passo non è mica facile: subentrano dei fattori ulteriori che rendono il tutto difficile. Per me oggi la difficoltà non è cosa fare dentro quel rettangolo, che lo so fare benissimo… cioè, a dire il vero lo so fare male come male lo facevo allora…  comunque, oggi per me la difficoltà è gestire il mio corpo. Ed è una sfida non indifferente».

Quindi il progetto in linea di massima potrebbe essere quello delle Paralimpiadi?

«Beh, l’obiettivo sarebbe quello… Adesso farò una gara a Sommacampagna (11-13 marzo, n.d.r.) nella quale dovrò qualificarmi per andare a Mannheim. Se tutto procede come deve andare, può darsi che alla fine mi ritrovi in gara alle Paralimpiadi. Vedremo. Alla fine, come sempre, sarà quel che deve essere… ».

 

LA SCHEDA DI FERDINANDO ACERBI

Nato a Milano il 17 novembre 1965, ma piacentino in realtà, Ferdinando Acerbi inizia a montare a cavallo a sette anni al Circolo Ippico Piacentino sotto la guida del maresciallo Baldi. Successivamente verrà seguito dal generale Cini e dalla signora Schiavetti, partecipando inoltre a diversi stage tenuti da Mauro Checcoli. Affronta la sua prima gara di completo nel 1978 a Migliarino Pisano. Fa parte della squadra azzurra juniores impegnata nel Campionato d’Europa di completo nel 1982 a Rotherfield Park, in Gran Bretagna. Poi comincia a montare a Castellazzo con Fabio Giuliani e Graziano Mancinelli. Nel 1986 torna a Rotherfield Park con la squadra azzurra young rider che conquista la medaglia d’argento nel Campionato d’Europa, sempre ovviamente di completo: un grande successo dell’equitazione azzurra di quel momento. A partire dal 1987 viene convocato presso il Centro Equestre Federale dei Pratoni del Vivaro, dove resterà fino al termine dei Giochi di Atlanta 1996 svolgendo la preparazione per ben tre Olimpiadi, anche se per circostanze talvolta molto sfortunate non prenderà parte a nessuna delle tre: partecipa invece a due Campionati d’Europa e un Campionato del Mondo, oltre che ai più importanti completi internazionali. Al termine del 1996 smette completamente l’attività di cavaliere, per poi riprenderla alla fine del 2015 e partecipare la scorsa estate alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro.