Nazionalità e appartenenza: un problema controverso

Da quando il miliardario Aleksander Onishenko ha… fatto l’Ucraina ingaggiando atleti tedeschi, belgi, brasiliani e ungheresi la questione del cambio di nazionalità è divenuta di grande attualità

Bologna, ottobre 2015 – Katharina Offel è nuovamente tedesca dopo dieci anni da ucraina. Il comunicato con il quale lei stessa annuncia il… ritorno a casa (lo trovate qui: http://www.cavallomagazine.it/katharina-offel-torna-sotto-la-germania-1.1378337) lascia intendere molte cose: sembra anche di intuire una specie di sospiro di sollievo… Ma questa potrebbe essere una interpretazione del tutto soggettiva: meglio attenersi solo alle parole e al loro significato oggettivo. Certo è che questa notizia porta nuovamente alla ribalta la questione del cambio di nazionalità sportiva da parte di amazzoni e cavalieri dopo essersi affermati ad alto livello agonistico per i colori del Paese di nascita, e poi eventualmente – come nel caso di Offel – ritornare alla propria bandiera di origine. È giusto? Non è giusto? Intanto cominciamo con il dire che un conto sono i cambi di nazionalità e altro conto è l’operazione messa in atto da Aleksander Onishenko ormai diversi anni or sono. Tale operazione ha rappresentato a nostra memoria il peggiore insulto al concetto di rappresentatività nel mondo dello sport di sempre. Onishenko un bel giorno ha pensato di fare una intera squadra nazionale comperandosi i cavalieri, come se stesse gironzolando per i corridoi di un supermercato spingendo il carrello: un brasiliano, un ungherese, poi vediamo… ah sì, ho bisogno di due tedeschi, ci aggiungiamo anche una coppia di belgi… Poi ha detto: ecco, questa è l’Ucraina! Una intera squadra nazionale. Una squadra che ha rappresentato una nazione, un Paese, una federazione. Composta da amazzoni e cavalieri che probabilmente prima di passare sul nastro della cassa del supermercato non sapevano nemmeno dove fosse l’Ucraina.

Questa sedicente squadra nazionale è poi andata a fare il Campionato del Mondo ad Aquisgrana nel 2006 e per un pelo non ha vinto una medaglia classificandosi al quarto posto. La Fei subito dopo è corsa ai ripari inasprendo (per modo di dire) i termini secondo cui a un atleta è consentito il cambio di nazionalità, visto che con la normativa vigente in precedenza le cose di fatto erano davvero troppo facili e le ipotesi di veder spuntare altre squadre… nazionali di tal fatta troppo inquietanti. Allora, cosa diceva questa nuova serie di regole? Molte cose, ma le più interessanti al proposito erano le seguenti. Primo: per partecipare con i colori della nuova federazione a manifestazioni quali campionati internazionali, tappe di Coppa del Mondo, Coppe delle Nazioni il cavaliere deve aver avuto la residenza nel nuovo Paese per almeno due anni consecutivi, o in alternativa cinque non consecutivi, prima della gara cui intende partecipare. Secondo: per partecipare con i colori della nuova federazione alle manifestazioni or ora citate il cavaliere non deve aver partecipato ad alcuna delle manifestazioni or ora citate per almeno due anni con i colori della vecchia federazione dal momento dell’inizio della manifestazione stessa (ci sono ovviamente delle eccezioni che riguardano cavalieri con doppia nazionalità, quelli che si sposano con uno straniero etc. etc.). E infine un terzo punto: un cavaliere può gareggiare per i colori della nuova federazione solo dopo il rilascio da parte della Fei di una specifica autorizzazione scritta.

Detto questo, perché quello di Onishenko è stato un insulto allo sport? Perché lo sport agonistico si basa sul concetto – ripetiamo – di rappresentatività, più che mai nel caso di squadre nazionali. I simboli hanno un valore, ed esprimere questa idea non vuol dire essere vecchi o conservatori o superati, anzi: vuol dire salvaguardare quell’ammasso di emozioni e passioni e sentimenti che si provano quando ci si riconosce in qualcosa, quando ci si identifica in qualcosa, quando si sente di possedere qualcosa in comune con quel qualcosa. Questo nel mondo dello sport è ciò che lega il pubblico al campione, o alla squadra, o alla nazionale. Di qualunque sport si stia parlando. Rappresentatività, dunque. Questo è il punto focale, prima ancora di stabilire che se un cavaliere nasce in Germania deve gareggiare per la Germania, se in Belgio con il Belgio etc etc. Lo sport equestre è pieno di esempi di atleti che sono nati in un Paese ma poi hanno ‘rappresentato’ in modo più significativo un’altra bandiera. Rappresentare, quindi: farsi portatori di valori e simboli che si possiedono in condivisione con ciò che si rappresenta: e in questo credere ciecamente, senza opportunismi o ipocrisie. Tutto ciò è il fondamento dell’appartenenza di un atleta a una o all’altra federazione. Come nel caso di Franke Sloothaak (olandese per la Germania) o di Hugo Simon (tedesco per l’Austria) o di Meredith Michaels Beerbaum (statunitense per la Germania) o di Juan Carlos Garcia (colombiano per l’Italia) o di Romain Duguet (francese per la Svizzera), e si potrebbe continuare a lungo (diverso e atipico il caso di Jos Lansink, olandese per il Belgio: lì è stata una costrizione del suo datore di lavoro, Leon Melchior). Vi sono poi tanti casi di atleti con doppio passaporto perché figli di genitori di nazionalità diverse, ma alla fin fine il concetto è sempre lo stesso: l’ indispensabile è rappresentare qualcosa, farsi portatori di una serie di simboli condivisi. Ma tutti i cavalieri assoldati da Onishenko cosa hanno rappresentato? Cosa rappresentano? Quali sono i valori che li rendono simboli dell’Ucraina? Zero, nessuno, vuoto totale.

Ecco perché quello di Onishenko è un insulto: aver ridotto la rappresentatività nazionale (ripetiamo: nazionale!) a una semplice compravendita, a uno scambio di denaro/prestazione, a un mercimonio. La negazione dello sport, insomma. E non si sollevi l’obiezione quasi scontata: e i calciatori allora? Beh non è un’obiezione pertinente, nonostante il calcio sia ormai diventato un postribolo più che un luogo di sport… Perché i calciatori stranieri vengono ingaggiati dalle squadre di club, non dalle nazionali, e talvolta molti di loro ne diventano per l’appunto un simbolo: si pensi a Maradona per il Napoli, a Zanetti per l’Inter, al trio Gullit-van Basten- Rijkaard per il Milan, e decine di altri potrebbero essere citati in questo senso; nella squadra nazionale però giocano calciatori italiani, francesi in quella francese, tedeschi in quella tedesca: anche quando hanno la pelle scura, anche quando hanno cognomi strani.

Katharina Offel ha dunque deciso di ritornare a essere ciò che è da quando è nata, come peraltro a suo tempo ha fatto anche il belga Gregory Wathelet, altro acquisto ‘pentito’ di Onishenko. Sinceramente è una buona notizia. Speriamo solo (per lei) che il mondo dell’equitazione tedesca la riconosca ancora come ‘cosa sua’, come una di casa.

9 ottobre 2015