Italia, il bello del giorno dopo

Il quarto posto della squadra azzurra nella finale mondiale di Coppa delle Nazioni di Barcellona è un bel risultato indubbiamente: ma molto più bello è il significato che rappresenta

Bologna, 25 settembre 2016 – Italia, la mattina dopo. Dopo la finale mondiale di Coppa delle Nazioni. E’ bello fare dei pensieri. Un giorno di tanti anni fa a Piazza di Siena il grande Raimondo d’Inzeo si presentò al cospetto del padre di Gianni Govoni e a bruciapelo gli chiese: “Signor Govoni lei di suo figlio vuole fare un commerciante o un cavaliere?”. Un po’ imbarazzato il signor Govoni rispose cavaliere: e fu così che il ragazzino Gianni Govoni partì verso i Pratoni del Vivaro per cominciare a essere ciò che è oggi. Piergiorgio Bucci è abruzzese: aquilano, per la precisione. Gli aquilani sono gente speciale: il loro cuore è grande il doppio. Non lo dice la scienza, lo dice la vita: fidatevi. Piergiorgio da piccolo è attirato dai cavalli e quindi inizia a montare come i cowboy: i bambini ‘generici’ infatti vedono solo i cavalli dei cowboy e degli indiani. Sella americana, quarter, cinturoni eccetera eccetera… quelle cose lì. Poi il destino lo guida verso l’approdo della sua vita. Lontano dall’Aquila, ma con il cuore grande sempre il doppio: quindi tutte le cose per Piergiorgio diventano grandi il doppio, nel bene e nel male. Lui quando è felice è felice il doppio, e se si deprime si deprime il doppio: assumendosi sempre responsabilità anche quando non ne ha, mettendo sempre le sue colpe vere o presunte davanti a tutto. Una volta gli venne affidato il cavallo Hamilton de Perhet, e lui disse: “Se non vinco con un cavallo del genere smetto di montare”. Non ha smesso di montare. Oggi dice: “Quando riuscirò a montare Casallo come lui merita sarà favoloso”. Vedete? Per Piergiorgio il livello dei suoi cavalli è sempre massimo: è lui che li deve raggiungere. Perché il suo cuore è grande il doppio. Bruno Chimirri da piccolo prendeva il treno con il cugino Vincenzo per andare a vedere la Coppa degli Assi a Palermo: il massimo di quello che lui poteva raggiungere. Alla Favorita si conquistava un posto a sedere prima ancora che i groom in scuderia cominciassero a toelettare i cavalli che avrebbero dovuto partecipare alla prima gara della giornata… Bruno stava lì e aspettava con l’emozione che gli pulsava dentro alla sola idea di vedere quello che poi avrebbe visto. Sognava. E quando la mamma di Vincenzo raccontava ai due ragazzi di essere stata più volte a vedere Piazza di Siena, loro immancabilmente domandavano: “E hai visto i d’Inzeo e Mancinelli?”, e lei rispondeva: “Sì”, e loro: “Sei sicura, proprio loro?”, e lei: “Sì, loro”, e i due ragazzini ammutolivano soverchiati da tanta emozione. Lorenzo de Luca sorride con un sorriso contagioso e solare, con le guance che gli si arrossano seguendo il movimento dei suoi stati d’animo. Da ragazzino ha lasciato casa e famiglia subito dopo la fine della scuola per inseguire sé stesso: “Io non sono per niente una persona venale, io sono un sognatore”, ha detto una volta in un’intervista, sentendo il bisogno di specificare: “Vengo da Lecce, che è una piccola città al sud dell’Italia”.

Govoni, Chimirri, Bucci e de Luca. E Juan Carlos Garcia, che a Barcellona ha fatto il quinto ma che rappresenta un capitale enorme per il salto ostacoli azzurro. Loro e le loro storie. Ognuno di noi ha una storia dietro sé stesso, anche chi legge queste righe in questo momento ha una storia dietro sé stesso, anche chi le sta scrivendo. E’ bello raccontare le storie che conducono a qualcosa perché servono da esempio, da stimolo, da riferimento per fare in modo che ognuno di noi possa vivere la sua storia al meglio. Oggi i quattro azzurri di Barcellona sono sulla ribalta internazionale, ma la loro vita non è stata sempre così: i momenti difficili, i momenti oscuri, la sensazione di aver sbagliato tutto, il timore di non trovare una soluzione… tutto questo c’è stato per tutti loro. Chimirri e Govoni hanno assaporato il grande livello internazionale e poi per tanti anni ne sono stati lontani: montando cavalli e facendo concorsi apparentemente senza un perché, ma quel perché sapendolo trovare ogni giorno nella voglia di essere cavalieri. Nel bisogno di essere cavalieri. Quando montavano Landknecht e Havinia hanno vinto insieme una finale mondiale di Coppa delle Nazioni a Donaueschingen, era il 2002: con loro Jerry Smit su Jamiro e Vincenzo Chimirri su Defi Platiere. Dietro di loro nomi di cavalli e cavalieri leggendari. Piergiorgio Bucci e Juan Carlos Garcia (insieme a Natale Chiaudani e Giuseppe D’Onofrio) hanno vinto la prima medaglia internazionale per l’Italia da dopo quella olimpica del 1972 a Monaco: l’argento europeo a Windsor nel 2009. Poi Piergiorgio è rimasto sempre presente, lavorando con impegno e passione inesauribili per farsi trovare pronto a ricevere il cavallo della vita, quello che nella storia di ogni cavaliere capita una, al massimo due volte. E’ arrivato Casallo: e adesso Piergiorgio è diventato quello che merita di essere.

Non ci sono solo loro, naturalmente e per fortuna: Emilio Bicocchi, Emanuele Gaudiano e Alberto Zorzi con i loro primi cavalli sono pedine da prima squadra pronte e utilizzabili in qualsiasi momento. Poi ci sono molti cavalieri di alto livello che in questo periodo sono sprovvisti del numero uno ma che stanno lavorando per fare in modo che il numero uno arrivi o si dichiari. Insomma: è bello pensare e considerare tutto questo oggi, la mattina dopo la finale mondiale di Barcellona. Farlo ripensando a tutte le volte che ci siamo sentiti frustrati, abbattuti, resi impotenti e delusi da risultati opachi, insignificanti, nulli, privi di senso… e che però non hanno mai avuto il potere di annullare il desiderio, la voglia, il sogno, l’amore per la nostra squadra e per il nostro sport da parte di tutti, cavalieri, tecnici, dirigenti, addetti ai lavori. Certo, a voler essere estremamente razionali e logici dovremmo dire calma e gesso: non abbiamo vinto niente. Non esaltiamoci. Non montiamoci la testa. Certo, è vero: ma non è il risultato in termini di piazzamento che adesso conta. Quello che conta adesso è sentirsi finalmente parte di qualcosa, di un livello internazionale nel quale finalmente ci siamo da protagonisti, sentire che i nostri cavalieri vanno in campo consapevoli del proprio valore e senza l’assillo di dover dimostrare qualcosa semplicemente perché quel qualcosa è stato già eloquentemente dimostrato. Sapere che c’è un mondo che lavora per produrre tutto questo. Un mondo fatto anche di persone che appaiono meno di chi va in campo ostacoli ma il cui valore è indiscutibile: pensiamo a Roberto Arioldi, Emilio Puricelli, Henk Nooren, Hans Horn, Duccio Bartalucci, tutti protagonisti – loro e i dirigenti che li hanno voluti – di una crescita della squadra azzurra che parte da lontano, che si è evoluta lungo alti e bassi, secondo tempi e modi che non sono e non possono essere quelli di Paesi come Germania o Francia o Olanda o Belgio. Non abbiamo vinto niente, certo. Ci sono squadre e cavalieri e federazioni che considererebbero i nostri risultati migliori come risultati insignificanti, certo: ma ognuno vive e ha vissuto la sua storia. Nessuna storia è uguale all’altra. Noi dobbiamo pensare alla nostra, di storia, e pensare che tutto sommato è una gran bella storia.