Il salto ostacoli, l’Italia e il senso della politica

Con l’infausta – per noi – finale del circuito di Coppa delle Nazioni di Barcellona è terminata la stagione sportiva della squadra azzurra: qualche inevitabile riflessione

Bologna, 2 ottobre 2017 – Gli obiettivi agonistici della squadra azzurra di salto ostacoli per il 2017 erano tre: il primo, permanenza in Prima Divisione d’Europa (a proposito, la Super League e la Top League non esistono più: così, per la cronaca… ); il secondo, il Campionato d’Europa; il terzo, la finale del circuito mondiale di Coppa delle Nazioni di Barcellona. Adesso che la stagione dell’attività di squadra è ultimata possiamo stilare un bilancio: per dire che abbiamo conquistato (e molto bene) un obiettivo su tre, il primo. Gli altri due li abbiamo mancati (uno male e uno molto male). Questo come premessa.

Adesso una considerazione che apparentemente non c’entra niente, e invece c’entra molto. Negli anni Settanta i cavalli olandesi – nel senso di nati e allevati in Olanda – non esistevano nel salto ostacoli: in Olanda praticamente c’erano solo i cavalli Gelderland e Groningen, quelli con la groppa piatta e forte che venivano usati nel lavoro agricolo oppure per tirare carrozze di vario tipo e genere. Ma a un certo punto lassù si sono detti: perché anche noi non ci facciamo in casa i nostri cavalli da salto ostacoli esattamente come le due principali nazioni produttrici (a quei tempi), cioè Irlanda e Germania? Bene, detto fatto: dal nulla assoluto nell’allevamento di cavalli saltatori, l’Olanda nel giro di soli vent’anni è diventata il numero uno al mondo. Come hanno fatto gli olandesi? Semplice: hanno lavorato continuativamente a un progetto. Certo: il clima, il senso del mercato e dell’allevamento, la posizione geografica… tutto verissimo. Ma il clima e il senso del mercato e dell’allevamento e la posizione geografica diventano solo aspetti insignificanti senza un’idea, senza un progetto organico portato avanti nel tempo secondo direttive semplici e precise.

La politica condiziona lo sport. Ovviamente. Non nel senso che determina la prestazione del cavallo e del cavaliere nel momento in cui entrambi entrano in campo ostacoli: ma nel senso che di quella prestazione la politica stabilisce le premesse e crea i presupposti. Detto ciò, che cosa ci ha insegnato e dimostrato questo 2017 che ormai è da considerarsi concluso per la vita sportiva della squadra azzurra? Principalmente una cosa: che noi siamo riusciti a emergere agonisticamente parlando solo quando la squadra ha potuto contare su due realtà estranee alla vita organizzativa e tecnica dell’Italia, quelle cioè nelle quali vivono e lavorano due cavalieri italiani favolosi come Lorenzo de Luca e Alberto Zorzi montati su quattro cavalli formidabili come Armitages Boy, Ensor de Litrange, Fair Light van het Heike e Cornetto K. Senza questi quattro cavalli (e senza anche Casallo Z per buona parte della stagione) l’Italia ha faticato, eufemisticamente parlando. Ma ha ‘faticato’ perché gli altri cavalieri sono degli incapaci in sella a cavalli di scarso valore? No di certo, una enorme sciocchezza anche solo pensarlo: il punto è che gli altri nostri fortissimi cavalieri hanno un solo cavallo ciascuno a disposizione. Troppo poco per gestire una stagione nella quale dover fare fronte a Coppe delle Nazioni, campionato internazionale, più quegli Csi inevitabili per la preparazione oltre che per motivi di gestione della scuderia. Troppo poco perché il tecnico federale possa permettersi una gestione calibrata e avveduta dell’impegno di tutti; guardate cosa è successo a un ‘capitale’ fenomenale del nostro salto ostacoli come Gianni Govoni: infortunato Antonio, abbiamo perso un cavaliere come lui per tutta la stagione… E per un arco di tempo fortunatamente più breve anche Piergiorgio Bucci e Casallo Z. E se la stessa cosa – corna e stracorna – succedesse un domani ad Ares? O a Ottava Meraviglia? O a Tower Mouche? O a Gitano? O a Tokyo du Soleil? Cioè, detta in modo semplice: abbiamo bisogno di un maggior numero di cavalli di alto livello. Ma più cavalli di alto livello oggi come oggi non si ottengono con più soldi: le cifre sono inarrivabili perfino per amatori molto ricchi. Più cavalli di alto livello si possono ottenere solo aumentando il volume della presenza dei soggetti giovani in preparazione nelle scuderie dei migliori cavalieri italiani. Il che potrebbe avvenire solo migliorando l’organizzazione della vita dell’allevamento e dello sport. Ed ecco dunque il ruolo determinante della politica.

Il problema storico e cronico della politica del nostro sport in Italia è la mancanza di continuità nello sviluppo e nel sostegno di un progetto. Il che accade per una ragione molto precisa: gli avvicendamenti al governo dell’equitazione italiana sono avvenuti sempre e solo in regime di assoluta discontinuità. Ogni presidente della Fise ha lavorato per l’appunto in discontinuità, perché ogni presidente della Fise è sempre stato eletto in contrasto con la politica di chi lo ha preceduto (un ‘sempre’ relativo: diciamo da Luling Buschetti in poi, quindi dalla metà degli anni Settanta, cioè – guarda caso – da quando è iniziata la crisi del nostro salto ostacoli). Lo sport equestre è faccenda da tempi lunghi: non si può pensare di fare una cosa oggi per vederne i frutti domani. Come in allevamento: quanti cavalli devono nascere e morire prima che un allevatore veda premiata la sua passione, la sua costanza, la sua dedizione? Gli olandesi ci hanno messo vent’anni (pochi o tanti a seconda dei punti di vista) per passare dal niente al tutto: ma hanno seguito un progetto che non ha mai visto modificarsi nel tempo il contenuto e le modalità (e non c’entra niente che nel loro caso si stia parlando di allevamento: il principio vale anche per lo sport). Non è quindi affatto casuale che l’iniziativa di maggior successo in Italia sotto il profilo della politica dei cavalli giovani sia stato il Circuito di Eccellenza durante gli anni della presidenza di Cesare Croce: il quale ha governato lo sport azzurro per ben tre quadrienni, dal 1996 al 2008, il periodo più lungo da dopo l’epoca di Ranieri di Campello (1943-1959), avendo quindi modo di mettere in pratica idee e progetti garantendo loro continuità e sviluppo. Poi cosa è successo? Non solo c’è stata la famigerata discontinuità di cui s’è detto, ma in più nessun presidente posteriore a Croce ha governato per più di quattro anni: Andrea Paulgross è stato in carica più di tutti conducendo il suo unico quadriennio dal 2008 al 2012, poi Antonella Dallari dal 2012 al 2013, quindi il commissariamento dal 2013 al 2015, Vittorio Orlandi dal 2015 a tutto il 2016, e infine Marco Di Paola che ha cominciato la sua presidenza all’inizio di quest’anno. E’ dunque dai tempi di Cesare Croce che l’Italia non conta più su un governo stabile e continuativo. Calcolando – inoltre – che è storicamente provato dall’esperienza vissuta da tutti i presidenti che il primo anno è di fatto inutile ai fini della programmazione (qualunque presidente lo ha trascorso smontando l’eredità del passato e cercando di capire il funzionamento del meccanismo federale). In sostanza possiamo dire di aver buttato via dieci anni di vita sportiva: del tutto a prescindere dalla qualità e dalle idee di ciascun presidente, ma solo per il fatto che tali idee – buone o cattive, giuste o sbagliate – non hanno avuto alcun modo di crescere e svilupparsi. Dieci anni persi: vale a dire la metà del tempo risultato sufficiente agli olandesi per creare l’allevamento più importante del mondo, tanto per capirci. Dieci anni durante i quali ad alcuni è mancato il tempo per seminare, ad altri è mancato il tempo per raccogliere il frutto della semina. Di cosa abbiamo bisogno quindi oggi? Abbiamo bisogno di costruire. Abbiamo bisogno di tempo. Abbiamo bisogno di progetti. Abbiamo bisogno di risorse. Abbiamo bisogno di coesione e collaborazione e unione. Diversamente avremo sempre più… Barcellone nel nostro futuro, e sempre meno… Rome e San Galli.