Sogni di bambini che diventano grandi: il Sassicaia e i Purosangue della Dormello Olgiata

Due storie che si intrecciano nella Maremma toscana più bella, tra vigne, cipressi, Purosangue e piste da galoppo

Il marchese Mario Incisa della Rocchetta, foto di Costantino Ruspoli (da archivio)

Livorno, 11 febbraio 2020 – Un sorso di vino assaggiato dal bicchiere del nonno, come succede a tutti da ragazzini: una concessione che sa di premio e confidenze tra grandi, di quelle che possono lasciare un ricordo bello e profondo per anni nel cuore di chi le ha vissute da bambino o poco più.

Un ricordo profumato, anche: come capitò al marchese Mario Incisa della Rocchetta quando aveva nemmeno 14 anni e gli rimase impresso il bouquet di un vecchio, prezioso bordeaux nel quale gli permisero di intingere le labbra o poco più.

Mario Incisa della Rocchetta è stato uno di quegli uomini capaci di lasciare impronte profonde sulla terra dove sono passati, pur con tutto il garbo e l’apparente leggerezza di un gentiluomo di antico stampo: anche nel mondo dell’ippica visto che fu il socio di Federico Tesio e proprietario della Dormello-Olgiata, la scuderia che diede i natali a Ribot.

Il marchese Incisa nacque a Roma nel 1899 da una nobile famiglia piemontese e già da piccolo aveva una passione morbosa per i cavalli, specialmente per i Purosangue da galoppo; studiò agraria a Pisa e prestò servizio militare in Novara cavalleria.

Un avvenimento fondamentale della sua vita avvenne nel 1930 e fu il suo matrimonio con Clarice dei conti della Gherardesca, peraltro favorito anche dall’intervento di donna Lydia Tesio: sua pari in gentilezza d’animo e valori morali, Clarice gli portò in dote 600 ettari di Maremma toscana nella zona di Bolgheri su cui insistevano una decina di poderi.

Ed è proprio su questa terra che si uniranno vini e cavalli, fili diversi tenuti insieme dalle mani leggere e dalla grande intelligenza di Mario Incisa.

Incisa si innamorò anche di questo pezzo di Toscana della provincia livornese tra Bibbiona e la Val Cornia: niente di più lontano da qualsiasi produzione enologica di classe, qui al massimo si produceva il rosso buono per le osterie dei paesi.

Eppure fu proprio qui che Incisa innestò i profumati ricordi di bambino che lo legavano a quel bordeaux che gli aveva fatto assaggiare il nonno Mario Chigi: aveva notato la somiglianza dei terreni del podere Sassicaia con quelli di Graves, a Bordeaux e difatti entrambi i toponimi hanno lo stesso significato – ghiaie.

Identificò nel Cabernet il vitigno che poteva restituirgli il bouquet che cercava e piantò vigne nuove nella tenuta di San Guido, a Bolgheri: le barbatelle erano state allevate in Italia dai duchi Salviati e il vino che producevano venne tenuto per l’uso di famiglia sino al 1967.

Ma ogni anno qualche bottiglia veniva messa in cantina per l’invecchiamento e ci si accorse con il tempo che negli anni migliorava in modo esponenziale: il vino diventava maestoso, con un lussuoso color granato e un gusto pieno e armonico, nobilmente elegante.

Dal 1968 il Sassicaia di Bolgheri venne messo sul mercato e diventò un caso enologico dall’ottimo successo, anche commerciale: a tutt’oggi è il solo caso italiano di Doc riservato ad una unica cantina, come succede anche in Francia per pochissime e scelte etichette.

E i cavalli? Continuavano a far parte della vita di Incisa e quindi di San Guido, ovviamente, nella quale ancora oggi ci sono molti cavalli, scuderie e centro di allenamento.

Incisa e la moglie dopo il matrimonio continuavano a frequentare gli ippodromi e la famiglia Tesio, cui erano legati da amicizia.

Avevano una loro scuderia ma non troppa fortuna, specialmente nel 1932: un paio di acquisti deludenti avevano un poco buttato giù il morale dei due giovani sposi.

Fu in quel momento che Federico Tesio, il più grande allevatore di Purosangue Inglesi (e non stiamo parlando solo dell’ambito nazionale) fece loro cadere addosso una proposta improvvisa come fulmine dal cielo: entrare in società con lui nella sua scuderia.

Il prezzo dell’operazione era alto, ma gli Incisa accettarono senza firmare nessuna carta o contratto, il marchese non sapeva nemmeno identificare con esattezza il giorno del fatidico sì.

Ma dalla primavera del 1932 i cavalli che fino ad allora avevano corso sotto il nome di Tesio vennero iscritti alle corse come appartenenti alla Tesio-Incisa: e per ufficializzare il tutto fu donna Clarice a riportare al pesage Jacopa del Sellaio quando vinse il Derby reale di quell’anno.

Un altro matrimonio a ben vedere, e sicuramente meno facile da condurre di quello con la gentile nobildonna toscana: Federico Tesio infatti aveva un carattere non facile, insofferente alle ingerenze esterne e alla stupidità umana o burocratica che fosse.

Ma gli Incisa avevano tatto ed intelligenza in abbondanza: mai interferirono nelle scelte del Mago di Dormello, mai cercarono d ritagliarsi uno spazio in scuderia a sfavore di Tesio o donna Lydia.

Un minuetto danzato sulle note della fiducia reciproca e del riconoscimento quasi filiale degli Incisa all’esperienza di Tesio, da lui ricambiato con tutta correttezza e lievità: i termini dell’accordo erano così vaghi che nemmeno si accorsero di avere diritto di proprietà solo ed esclusivamente sui cavalli e non su scuderie, attrezzature o altro a esse pertinenti.

Eppure il sodalizio funzionò egregiamente fino alla fine della vita di Tesio avvenuta nel 1954. Nel 1942 era stata nel frattempo creata la Dormello-Olgiata Spa, che prende nome dai suoi due centri di allevamento posti rispettivamente sul lago Maggiore e nella campagna romana: un vero e proprio mito dell’ippica, della quale i marchesi Incisa continuano ad essere parte integrante ancora oggi.

Tesio visse fino alla fine in scuderia, dirigendo gli allenamenti dei cavalli e le nascite dei futuri campioni: un lavoro indefesso, costante, di impegno totale e dedizione assoluta. Il suo lavoro e i suoi successi hanno influenzato in modo definitivo l’ippica moderna grazie ai cavalli da lui creati: Donatello II, Nearco e Ribot hanno fatto la storia dei Purosangue Inglesi non solo sulle piste degli ippodromi ma anche come padri di tante famiglie di campioni.

Un successo che gli creò tante malcelate invidie proprio in Italia: anche il soprannome che gli venne attribuito, quello di Mago di Dormello, era in un certo senso una sminuizione del suo lavoro quotidiano.

E proprio Mario Incisa, con la sua profondità, ha sottolineato un aspetto poco considerato della storia di Tesio e dei suoi cavalli: il fatto che ne avesse fatti nascere tanti di successo distoglieva l’attenzione dalle statistiche reali, facendo apparire quasi magico il suo tocco allevatoriale.

Il marchese invece teneva a ricordare che per ogni campione assurto all’onore delle cronache c’erano centinaia di altri puledri scartati o comunque di secondo livello: perché niente si ottiene senza lavoro e fatica, anche quando le luci del successo nascondono nell’ombra il lungo e faticoso processo di selezione che ha portato sin lì.

A San Guido, a poche centinaia di metri dalle vigne del Sassicaia, ancora oggi si allenano i cavalli che discendono dalla Dormello Olgiata: e i marchesi Incisa, oggi rappresentati da Niccolò, il terzo figlio di Mario e Clarice, continuano a tenere insieme su queste terre i fili di due storie diverse ma nate dalla mano e dalla mente di un uomo gentile e illuminato come Mario Incisa della Rocchetta.

Non solo cavalli, non solo vino

Mario Incisa amava profondamente la natura che lo circondava, su queste terre nel 1959 grazie a lui sorse la prima oasi faunistica privata; il suo impegno era riconosciuto a livello nazionale, tanto fu anche il primo presidente del WWF Italia.

I cipressi e la pista

Nella tenuta di San Guido a Bolgheri c’è il famoso viale dei cipressi “alti e schietti” cantati da Giosuè Carducci, e la pista dritta per l’allenamento dei cavalli passa proprio lì accanto, è lunga 1200 metri e ha il fondo in sabbia: se qualcuno volesse parlare della poesia dell’ippica non potrebbe trovare un posto migliore di questo.

«E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò»

N.b.: l’articolo era uscito su Cavallo Magazine 363 di febbraio 2017