Giovanni Battista Tomassini e Silvia Elena Resta: domande e risposte con il cavallo al centro

Le domande di Silvia Elena Resta a Giovanni Battista Tomassini: comincia il dialogo con i nostri lettori per scoprire connessioni e punti di interesse comuni tra la gente di cavalli di oggi e quella di ieri

Bologna, 24 dicembre 2019 – Ve lo avevamo promesso alla scorsa Fieracavalli, in occasione dell’incontro avuto con Giovanni Battista Tomassini allo stand di Cavallo Magazine: continuare il dialogo con i nostri (e suoi!) lettori e tutti gli appassionati di equitazione, grandi e piccoli: per mettere in luce le connessioni tra gli uomini di cavalli di ieri e quelli di oggi, i problemi comuni e le comuni risoluzioni, quel profondo strato fatto di cultura equestre, abitudine a frequentare i cavalli, piccole illuminazioni di buon senso e grandi patrimoni di sapere che soltanto lui, il cavallo, può mantenere davvero vivi.

Perché il cavallo è sempre lo stesso, pur nel variare dei suoi infiniti tipi: con le stesse fondamentali esigenze, e le stesse cose meravigliose da donarci.

Per questo ringraziamo di vero cuore Giovanni Battista Tomassini, tra le altre cose cavaliere e studioso di storia dell’equitazione e autore del libro “Le opere della cavalleria”, che ha proposto con entusiasmo questo piccolo progetto: e cominciamo questi dialoghi con alcune domande che gli ha posto Silvia Elena Resta, amazzone, artista equestre e direttore artistico del Teatro Equestre Le Zebre.

Dopo tanti anni trascorsi studiando gli antichi trattati di equitazione, quali tra i tanti insegnamenti dei maestri del passato ti sembrano i più significativi?

Il primo che mi viene in mente è l’esortazione che conclude il trattato di Cesare Fiaschi (1556), secondo il quale il cavaliere che vuole eccellere deve coltivare l’amicizia dei veri esperti dell’arte equestre:

quel cavaliero che perfettamente si delettarà della virtu cavaleresca, ha primieramente da usare ogni studio per acquistare la benevolenza di quelli, che di essa saranno ben scienti, per poter essere, come bisogna, bene istrutti, e ammaestrati; e si de cavalcatori, come de morsari, e maniscalchi; l’amicitia de quali egli ha da fare ogni cosa per conservare (FIASCHI, 1556, p. 160).

Può sembrare strano che lo citi per primo, ma mi sembra un consiglio bellissimo e davvero intelligente.

Ciò che trovo più affascinante dell’equitazione è che è un’arte che non si finisce mai di imparare e che richiede attenzione, sensibilità ed esperienza. Per questo è fondamentale poter beneficiare dell’esempio dei veri maestri, apprenderne la saggezza, interrogarli per capire come nel corso della loro vita interpretino la loro relazione con i cavalli. L’equitazione si può apprendere solo attraverso un processo di trasmissione dell’esperienza tra maestro ed allievo e, quando poi la sensibilità del cavaliere è opportunamente affinata, tra lo stesso cavallo e la persona che lo monta. Perché a un certo punto è il cavallo a diventare il nostro primo e più importante maestro. Bisogna però imparare ad ascoltare il suo silenzioso insegnamento. Per arrivare a questa piena armonia tra due esseri, l’uomo e il cavallo, profondamente diversi, ma straordinariamente compatibili, non basta semplicemente la pratica. Occorre anche quello che Federico Grisone definiva il «vero, e buon discorso», vale a dire la corretta dottrina, che si basa sull’esperienza, ma anche su una riflessione di tipo teorico e, appunto, sulla trasmissione del sapere equestre da parte dei veri maestri. Questa può avvenire in forma diretta, incontrando e frequentando la “gente di cavalli”, ma anche in modo mediato, per esempio attraverso i libri. Sebbene non si possa pensare di apprendere a montare a cavallo solo leggendo, lo studio della cultura equestre serve ad affinare la nostra sensibilità, imponendoci di riflettere su una pratica che coinvolge il nostro corpo, ma che chiama allo stesso tempo in causa la nostra capacità di ascolto di ciò che è altro da noi.

Un secondo aspetto, che è caratteristico dell’equitazione rinascimentale, e che trovo estremamente significativo è l’idea che l’equitazione sia un’arte strettamente imparentata con la musica. Non solo perché l’essenza del movimento in equitazione è il ritmo (anche negli esercizi più apparentemente sfrenati e irruenti), ma anche perché, come la musica l’equitazione è al contempo una disciplina del corpo, ma anche della mente e dello spirito. Ancora Cesare Fiaschi diceva che così come un musico rifiuta di suonare uno strumento scordato, un vero cavaliere deve adoperarsi per montare un cavallo sempre perfettamente accordato, vale a dire addestrato e pronto a eseguire i movimenti che gli si richiedono. Come la musica, l’equitazione richiede esercizio, esattezza, gusto. Esercizio per imparare a fare senza sforzo quello che all’inizio sembra difficile, o addirittura impossibile. Esattezza, perché solo con il pieno controllo di sé il cavaliere riesce a controllare la sua cavalcatura. Gusto, perché serve una sensibilità attenta, per poter interpretare al meglio il dialogo ininterrotto tra il corpo dell’animale e quello della persona che lo cavalca.

Il terzo è anche questo un tema tipicamente rinascimentale, ma a ben vedere, secondo me, ancora pienamente attuale. Nel suo Libro del Corteggiano, Baldassarre Castiglione dice il perfetto cavaliere deve accompagnare “ogni suo movimento con un certo bon giudicio e grazia”. Buon giudizio, cioè competenza, e grazia, cioè la capacità di far apparire semplice anche il gesto più complicato. E si badi bene non sto parlando di banale apparenza, ma di un’ideale di semplicità ed eleganza, che nasce da un assetto corretto, da un’assoluta confidenza con l’animale (quanti cavalieri, anche professionisti, hanno una fifa blu del cavallo che montano!), da una disciplina del corpo che limita gli aiuti a gesti essenziali, misurati ed efficaci. Si tratta è chiaro di un ideale che non si raggiunge mai pienamente, ma verso il quale tendere con applicazione e rigore. In fondo, però proprio questo fa dell’equitazione una pratica in cui è impossibile annoiarsi, perché è sempre perfettibile ed è un’esperienza che ogni giorno si rinnova.

Infine, da un punto di vista più squisitamente tecnico, la lezione del passato che mi sembra più importante è quella della “discesa delle mani” di cui parla La Guérinière: il premio dato mediante uno degli aiuti «più sottili e più utili della Cavalleria», come lui scrive nel suo libro École de Cavalerie (1733). Appena il cavallo smette di resistere alla volontà del cavaliere, questi lo lascia “in libertà su parola”: cessa cioè gli aiuti con i quali lo controlla e gli concede di portarsi da solo. Allora l’animale riesce a esprimere il massimo della sua eleganza, della sua forza e agilità. È in fondo la stessa fiducia che porta il cavaliere ad avanzare le mani per lasciare “libertà d’incollatura” al cavallo sull’ostacolo nel “sistema naturale d’equitazione” di Federico Caprilli. Il sapere accumulatosi in millenni di convivenza tra l’uomo e il cavallo, tramandatoci dalla letteratura equestre, ci insegna che per eccellere il cavaliere deve vincere i propri timori e imparare a fidarsi di se stesso e della propria cavalcatura. L’essenza dell’equitazione più sofisticata sta in questa sicurezza interiore e in questa fiducia, che portano l’uomo a ricompensare la disponibilità dell’animale a collaborare lasciandolo quanto più possibile libero di esprimere le proprie potenzialità fisiche, senza inutili coercizioni.

In un’epoca in cui l’editoria è in difficoltà, quali possono essere i canali attraverso i quali divulgare la cultura equestre?

Credo che il compito di divulgare la cultura equestre spetti in primo luogo alla FISE. Purtroppo, negli ultimi decenni su questo aspetto, la Federazione è stata colpevolmente latitante. Ha prevalso un miope pregiudizio, che bollava ogni discorso di tipo culturale come noioso e libresco. Un errore gravissimo, perché la cultura fa bene al movimento equestre: lo fa crescere da un punto di vista qualitativo, perché aiuta a formare amazzoni e cavalieri più consapevoli, ma anche da un punto di vista quantitativo, perché offre un’occasione di avvicinarsi e partecipare all’equitazione anche alle persone che amano i cavalli, ma non sono nelle condizioni, o semplicemente non hanno la voglia, di dedicarsi alla pratica agonistica. Per fortuna, recentemente ho colto importanti segnali di un’inversione di tendenza. La FISE, e in particolare il presidente Marco Di Paola, mi sembrano maggiormente consapevoli dell’importanza della divulgazione culturale. Sono state organizzate diverse iniziative che vanno in questa direzione e che meritano di essere pienamente incoraggiate. È poi fondamentale che i programmi federali di formazione degli istruttori includano anche nozioni essenziali di tipo storico e culturale. Parte tutto da lì.

Certo anche chi si occupa di cultura equestre deve fare uno sforzo per farsi ascoltare. Per troppo tempo, argomenti di tipo storico sono stati comunicati in modo noioso e banalizzante. Serve invece far capire a chi ci ascolta, o ci legge, che non è un “dovere” conoscere la storia e la cultura dell’equitazione, ma è un piacere che arricchisce la nostra esperienza, con scoperte interessanti e divertenti. È qualcosa che portiamo con noi quando siamo in sella e che ci rende cavalieri e persone migliori. Per fortuna, anche da questo punto di vista vedo segnali incoraggianti. Penso, per esempio, a un giornalista come Umberto Martuscelli, che coniuga perfettamente una grande competenza con una appassionata capacità di coinvolgere i propri lettori e il proprio uditorio quando parla in pubblico.

Internet oggi offre grandi possibilità di comunicazione. Arriva a tutti e può essere un media molto efficace. Il problema è imparare a selezionare le informazioni attendibili. Perché nella rete circola anche tanto ciarpame.

Penso infine che le persone di buona volontà debbano rimboccarsi le maniche e, nel loro piccolo, darsi da fare per far circolare le idee. Mi capita a volte di essere invitato in circolo ippici, o in manifestazioni equestri (come Fieracavalli) a parlare dei miei studi. Lo faccio sempre molto volentieri e debbo dire che è sempre una bella esperienza. Incontro persone interessate e intelligenti, con le quali è sempre molto stimolante confrontarsi.

Cosa possiamo fare noi istruttori per sensibilizzare i nostri allievi e incoraggiarli ad approfondire la loro esperienza equestre anche da un punto di vista culturale?

Credo che il modo più efficace sia sempre l’esempio. Se l’istruttore per primo avrà questa sensibilità e questo interesse è inevitabile che i suoi allievi ne abbiano un beneficio. Non è vero che le ragazze e i ragazzi sono disinteressati a certi argomenti e rincretiniti dai loro telefonini. La maggior parte di loro non aspetta altro che qualcuno gli indichi qualcosa a cui appassionarsi e dedicare le proprie energie. Quindi, penso che serva parlare loro di questi argomenti, ma soprattutto mostrare loro con i fatti, che non si tratta di nozioni astratte, ma di conoscenze che possono renderli amazzoni e cavalieri migliori, ma anche, lo ripeto, persone più consapevoli.

Da dove nasce la tua passione per i cavalli e l’equitazione?

In molti me lo chiedono, ma non so indicare una causa, o un episodio. So solo che il primo ricordo che io ho della mia vita sono i poster con le fotografie dei cavalli appesi sulla parete nella mia stanza di bambino. Ho sempre avuto il desiderio di imparare a montare a cavallo e assillato i miei genitori sin da quando ero molto piccolo perché me lo consentissero. I cavalli hanno sempre rappresentato per me un ideale di libertà, nobiltà, avventura. Tuttora quando monto a cavallo mi rendo conto che il piacere che provo mi ricongiunge con quelle remote fantasie infantili e mi restituisce a una parte profonda e autentica di me stesso.

Termina qui la prima puntata: ma siamo già al lavoro per preparare le prossime…e anche questo è un augurio per un 2020 ricco di cose belle!