Il cavallo che Leonardo non fece

Dietro i cavalli di design che a Milano sino al 30 ottobre 2019 ricorderanno Leonardo da Vinci c’è una lunga storia. Ve la raccontiamo qui, partendo dall’inizio e ricordando anche Charles Dent, l’aviere americano che riuscì dove Ludovico il Moro non aveva potuto

Milano, 3 maggio 2019 – A cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci Milano lo ricorda con i cavalli di design realizzati da Snaitech che arricchiranno tanti angoli della città nella quale il genio toscano ha lasciato tanta parte di sé (dai Navigli al Cenacolo, tanto per dirne un paio).

Tutte opere ispirate al cavallo vinciano che caratterizza e abita l’entrata dell’ipprodromo di San Siro: una monumentale statua in bronzo ispirata al monumento equestre che, secondo le intenzioni di Ludovico il Moro, avrebbe dovuto arricchire la città di Milano e ricordare le gesta di suo padre Francesco, creatore delle fortune di famiglia ma che Leonardo non arrivò mai a fondere.

E com’è che un monumento mai nato del Rinascimento è il simbolo di un evento di oggi? Facile: grazie al mecenatismo di Charles Dent, un ex-pilota americano che lesse un articolo del National Geographic sul Cavallo di Leonardo, si innamorò della sua storia e trovò i soldi necessari a realizzare una fusione gigantesca, che aspettava di essere realizzata da più di 500 anni.

Ma procediamo con ordine, e possibilmente dall’inizio.

Che è il 1473, anno in cui Galeazzo Maria Sforza (primogenito di Francesco e fratello maggiore di Ludovico il Moro) comincia a cercare un artista che sia in grado di eseguire un magnifico monumento equestre in bronzo a grandezza naturale che rappresenti il padre Francesco.

L’opera non è di semplice realizzazione, le fusioni in bronzo sono opere complesse che vedono aumentare le difficoltà di realizzazione in relazione diretta con le loro dimensioni: Galeazzo Maria muore nel 1476, dopo qualche anno di attesa eredita governo dello stato (e desiderio di realizzare il monumento, ma moto più grandiosamente) suo fratello Ludovico, che prima farà da reggente al nipote e poi riuscirà a prenderne il posto di signore di Milano.

Anni tumultuosi per il ducato lombardo, ricchissimo ma dominato da una famiglia che deteneva il potere in modo un po’ irregolare: il passaggio delle consegne ducali dai Visconti agli Sforza era del tutto aleatorio senza l’investitura ufficiale dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, Massimiliano d’Austria, unica autorità competente in materia e che diede le patenti ducali a Ludovico solo nel 1494.

Senza contare la figura controversa di Ludovico il Moro, in odore di usurpazione e furto di potere verso il suo stesso nipote: c’era bisogno di cementare la posizione di famiglia, Ludovico aveva una estrema necessità «di prestigio e magnificenza».

Le manifestazioni artistiche facevano parte di quelle attività atte a conquistare il consenso popolare, e il Moro era perfettamente consapevole del fatto che questo genere di interventi avrebbero fatto bene alla sua immagine: di qui la sua attenzione anche a ricercare gli artisti più famosi per rendere splendido il suo stato.

Lorenzo il Magnifico gli raccomandò, tra gli altri, Leonardo da Vinci: in lui Ludovico ripose tante speranze, compresa quella del mai dimenticato monumento equestre.

Peccato che Leonardo fosse sì geniale ed eclettico, ma anche piuttosto dispersivo; realizzò tante opere sia artistiche che di ingegneria, ma gli si dovette correre dietro per fargli finire il Cenacolo e la statua di Francesco Sforza rimase allo stadio di modello in creta, magnifico e bellissimo ed enorme ma sempre e solo un modello.

Venne distrutto dagli alabardieri francesi quando il Moro perse il potere, di lui rimasero i tanti schizzi di Leonardo che cercava nelle strade di Milano i cavalli più belli e ne rubava il ritratto di una groppa, del petto, dei garretti o di una incollatura particolarmente fascinosa.

Questa era la storia di cui si innamorò Charles Dent: le preoccupazioni di Leonardo circa la fusione contemporanea di tanto materiale vennero risolte con le tecniche moderne, e il Cavallo di Leonardo nel 1999 ha visto finalmente la luce, grazie all’artista di origine giapponese Nina Akamu.

L’opera di Akamu è in realtà un omaggio al progetto del genio rinascimentale, più che una realizzazione rigorosamente fedele ai pochi disegni rimasti: ma è comunque un grande atto d’amore verso un’epoca lontana di terribili splendori e sconvolgenti meraviglie, dove lo stesso bronzo poteva servire indifferentemente per fare mortali cannoni da guerra, o raffinate sculture che avrebbero potuto sfidare i secoli.

Quale dei due?

I cavalli di bronzo realizzati da Nina Akamu sono quattro: il più grande, alto 7,3 metri è stato portato a Milano e orna l’entrata dell’Ippodromo di San Siro. Una copia più piccola è stata regalata alla città di Vinci, gli altri due si trovano negli Stati Uniti; Charles Dent è morto nel 1994, senza vedere mai realizzato il suo cavallo.

Leonardo da Vinci

Nacque a Vinci il 15 aprile 1452 e morì ad Amboise, in Francia, il 2 maggio 1519. In mezzo a queste due date una vita dedicata alla scoperta del mondo e di quello che il mondo ancora non aveva mai visto, portandosi dietro quel talento pittorico che gli permise di svettare sugli artisti suoi contemporanei ma che gli rubava il tempo da dedicare ai suoi tanto cari studi di meccanica, idraulica, matematica, botanica, anatomia, balistica, astronomia, architettura. Senza contare il suo amore per la musica, il folklore, la lessicologia e il teatro: una vita che ne ha contenute altre cento, e che Leonardo ha vissuto di corsa, cercando di non lasciarsi sfuggire niente di quello che voleva capire anche a costo di non portare a termine ciò che aveva cominciato, era già lì in parte tra le sue mani e forse proprio per questo non lo incuriosiva più.

Ludovico Sforza, detto il Moro (1452-1508)

Duca di Milano prima per volontà che per investitura imperiale, «…nei giorni di splendida illusione irradiata di fortuna…tutto ciò che era sforzesco appariva allora superbo e, col diritto di esserlo, deificante. Al duca Ludovico si doveva la stupefatta gioia che egli esistesse, incantava sentirlo ragionare del governo, delle nuove città, della vita del popolo. Aveva definito una volta il re di Francia suo capitano, il papa suo cappellano e Venezia la sua riserva di mercanzie». Sono le parole che Maria Bellonci fa dire alla sua Isabella d’Este in Rinascimento Privato, e fanno sentire quello che doveva essere il giudizio dei contemporanei sul Moro dei tempi luminosi: ma chiamando i francesi in Italia firmò la sua condanna, presero il suo ducato invece del regno di Napoli. Chiese protezione all’imperatore, provò a riprendersi Milano ma finì per tentare la fuga travestito da lanzichenecco mischiandosi agli svizzeri che lo tradirono. Milano da quel momento rimase sotto dominio straniero per 360 anni, Ludovico morì prigioniero in Francia.

Francesco Sforza (1401-1466)

Il monumento equestre doveva essere dedicato a lui, il padre di Ludovico. Fu il primo della dinastia Sforza a lasciare il mestiere delle armi per amministrare un dominio conquistato con la forza, l’intelligenza e anche un paio di oculatissimi matrimoni. Francesco era figlio di Muzio Attendolo, mercenario di successo che morì annegato cercando di salvare un suo paggio durante il guado di un fiume in piena: «…spinse il suo cavallo nel fiume per salvarlo, ma essendosi le gambe posteriori del destriero affondate nella melma fangosa egli fu rovesciato di sella. Il cavallo libero del peso giunse alla riva, e lo Sforza sotto la grave armatura affondò nel fiume». Francesco crebbe sotto la guida di colti umanisti alla corte di Ferrara, ma affiancò presto il padre e le sue truppe di ventura sul campo; fu proprio la morte di Muzio a metterlo in luce come capitano di ventura, dopo l’incidente prese in mano le truppe e vinse una riga di battaglie cruciali. Sposò in prime nozze Polissena Russo, nobile calabrese che morì in fretta lasciandogli dote e proprietà. Ma il vero colpaccio della vita lo fece impalmando la piccola Bianca Maria, unica e legittimata figlia del duca di Milano Filippo Maria Visconti che era suo buon datore di lavoro: questi pensava di tenersi così legato un ottimo soldato di ventura che rischiava di passare al nemico. Filippo Maria non ebbe figli legittimi, e dalla moglie lo Sforza fece partire le sue pretese di ereditare il titolo del suocero. Fu un ottimo governante, oltre che fine diplomatico: a lui, vecchio e coraggioso soldato, si dovette la Pace di Lodi del 1454 che stabiliva un sistema di equilibrio fra le potenze italiane.

Qui il ink al sito americano di Leonardo’s Horse