Lalla Novo: la mia Aquisgrana

Il concorso più importante del mondo vissuto prima come concorrente, poi come capo équipe, infine come giudice: può dire di averlo fatto solo lei…

Lalla Novo (ph, UM)

Bologna, lunedì 5 dicembre 2022 – Moltissimi hanno montato in gara ad Aquisgrana nel corso della storia dello Csio più importante del mondo. Molti hanno vinto con la loro squadra la Coppa delle Nazioni. Pochi però dopo aver montato in gara e aver vinto la Coppa delle Nazioni sono rientrati su quello stesso terreno nel ruolo di capo équipe della propria squadra. Quasi nessuno, infine, dopo aver montato in gara, dopo aver vinto la Coppa delle Nazioni in sella, dopo aver guidato la propria squadra nel ruolo di capo équipe è salito nella tribuna della giuria nel ruolo di giudice straniero del concorso. Quasi, nessuno: perché in realtà una persona che ha fatto tutto questo c’è. Una sola. E per giunta donna. E per giunta italiana. Lalla Novo.

La giuria di Aquisgrana, nel 2008. Alla vigilia della partenza aveva confidato di essere un filino preoccupata…

«Beh, mi sembra normale. Non risultare convincenti o addirittura commettere qualche errore in un concorso come quello… Poi io sono più abituata ad avere rapporti con i francofoni. Comunque per me è stata una grande gioia e anche un grande onore essere nominata come giudice straniero ad Aquisgrana».

Una preoccupazione simile a quella vissuta prima come amazzone e poi come capo équipe?

«Mah, il livello di preoccupazione è stato più o meno sempre uguale. Io ho fatto uno dei miei primi concorsi internazionali a Madrid insieme a Giulia Serventi. E lei mi parlava sempre di questa Aquisgrana, Aquisgrana, Aquisgrana… Poi ci sono arrivata anch’io e allora ho capito. Tra l’altro a quei tempi il concorso durava otto giorni, dal sabato alla domenica della settimana successiva, una vera maratona».

E come è stato trovarsi in quel campo la prima volta?

«La mia prima Aquisgrana è stata nel 1963. Appena arrivati lì: oddio. Dopo la ricognizione del primo percorso: mamma mia. Poi per fortuna si entra finalmente a cavallo per la gara e tutto sparisce, a quel punto si pensa solo e soltanto a montare, possibilmente bene».

Il 1965 è stato un anno formidabile per lei e per la squadra italiana.

«Assolutamente straordinario. Quell’anno abbiamo fatto cinque Coppe delle Nazioni: quattro le abbiamo vinte, in una siamo arrivati al secondo posto. Piero d’Inzeo, Graziano Mancinelli, Stefano Angioni e io. Più Sergio Albanese al posto di Piero d’Inzeo a Ginevra. Abbiamo vinto a Roma, Aquisgrana, Nizza e Londra. Pensi che alla fine dell’anno in Germania veniva dato un premio alla migliore rappresentativa nazionale della stagione, ma considerando tutte le discipline sportive, non solo l’equitazione: ebbene, nel ’65 quel premio è stato assegnato alla squadra azzurra di salto ostacoli».

Il fatto di essere donna in quel periodo rappresentava un qualche tipo di limite?

«Beh, insomma, le donne allora non facevano tutto quello che fanno oggi, però io devo dire in tutta sincerità che per me non è mai stato un limite. Mi sono sempre comportata considerandomi alla pari degli altri compagni e avversari uomini, e da loro ho ricevuto lo stesso tipo di trattamento. Anzi, proprio in quel 1965 ad Aquisgrana è accaduto un episodio significativo. Il giorno prima della Coppa delle Nazioni il mio cavallo, Rahin, risulta indisponibile per la gara a causa di un leggero infortunio. Piero d’Inzeo aveva due cavalli possibili per la Coppa, Ballyblack e Sunbeam. Proprio lui, spontaneamente, dice al capo-équipe, il generale Tommaso Lequio d’Assaba, tra l’altro anche presidente della Fise in quel momento: perché non diamo Sunbeam a Lalla? Strano, perché Piero non era proprio il tipo da stendere il tappeto rosso davanti a nessuno. Però non facile da realizzare: allora non c’erano i corpi speciali, non c’erano donne nell’esercito, allora le donne non potevano nemmeno salire su una macchina militare, e infatti quando arrivavamo ai concorsi gli altri se ne andavano insieme in macchina e io dovevo prendere un taxi da sola… quindi figuriamoci io, civile e donna, con un cavallo di proprietà dello Stato in un concorso internazionale in Germania… Però il generale Lequio aveva buone conoscenze a livello militare e così la cosa si è fatta dopo aver inviato un fonogramma a Roma e da Roma aver ricevuto sempre via fonogramma l’autorizzazione. E abbiamo vinto».

Come era allora il rapporto con il pubblico e con le istituzioni del concorso?

«Con il pubblico il rapporto era zero. Per il resto i tecnici, i cavalieri e i capi-équipe erano molto meno viziati di adesso, avevi una macchina che ti veniva a prendere e che ti portava e la cosa finiva lì. In compenso c’erano molti più obblighi di rappresentanza: non c’era una sera libera».

In totale quante volte è stata presente ad Aquisgrana come amazzone?

«Cinque. Ho una grande fortuna: in scuderia ho cinque targhe dello Csio di Aquisgrana con scritto 1° classificato. Non credo che in Italia, tolti i d’Inzeo, Mancinelli e Orlandi, siano in molti a poterle avere… Per me è un grande valore».

Con il passare del tempo si è modificata la sua percezione di questo concorso?

«No, assolutamente. È sempre stato l’appuntamento più difficile e affascinante dell’anno. Basta vedere i cavalieri, quelli di oggi come quelli di ieri: ad Aquisgrana sono sempre molto più concentrati, tesi, lasciano sempre meno spazio agli scherzi e all’allegria per dedicarsi in tutto e per tutto alla preparazione della gara».

E poi c’è stato il suo ruolo di capo-équipe.

«Eh, purtroppo da capo-équipe l’ho vissuta con meno onore che da concorrente. La prima volta per il Campionato del Mondo del 1986: allora ci era sembrato di aver fatto un risultato negativo con quel 7° posto, invece… a rileggerlo oggi non è stato poi così male. Poi un’altra occasione, la Coppa delle Nazioni del 1992, ma quella volta era veramente una cosa troppo grossa e difficile per noi, anche perché avevamo in squadra ragazzi allora molto giovani, Jerry Smit, Valerio Sozzi… ».

Ma sarà stato un po’ diverso vivere il concorso a piedi, pur facendo sempre parte della squadra…

«Certo, anche se l’emozione è bella forte comunque. In generale però la più grande differenza l’ho riscontrata nel percepire come fosse diverso il modo di sentire il concorso tra i cavalieri di quando montavo io e quelli di quel periodo. Ma è ovvio: ai nostri tempi c’erano quindici concorsi internazionali all’anno, di cui sei Csio, quindi le possibilità di gareggiare ad alto livello con i migliori cavalieri del mondo non erano così tante. Oggi accade anche di trovare dei ragazzini di 18 anni che fanno il concorso ad Aquisgrana, ed è giusto che sia così: ma negli anni Sessanta e Settanta quando mai? Ai nostri tempi a 18 anni facevi il Saggio delle Scuole nella migliore delle ipotesi, se eri fortunato… ».

Da capo équipe ha mai dovuto spiegare qualcosa ai suoi ragazzi su come affrontare e vivere quel concorso?

«Non c’era molto da spiegare, anche perché io non ero il tecnico. I discorsi tecnici li faceva chi li doveva fare. Io al massimo potevo dare qualche buon consiglio, se vedevo che ce n’era bisogno. Qualche volta l’ho fatto, in momenti un po’ delicati. Anche a cavalieri importanti, ma solo per via della mia esperienza diretta. Uno dei cavalieri con il quale ho avuto rapporti molto intensi e piacevoli, a prescindere dal trovarsi ad Aquisgrana, è stato Guido Dominici. Lui era un ragazzo eccezionale con una volontà eccezionale, che però in alcuni momenti aveva bisogno di confrontarsi e di essere rassicurato circa la bontà dei suoi ragionamenti. Ecco, lui è stata una delle persone con la quale ho condiviso di più: momenti belli, ma anche qualcuno triste».

La cosa più bella che ha visto ad Aquisgrana?

«Ne ho viste talmente tante… Mi ricordo la volta in cui Graziano Mancinelli ha vinto in sella a Turvey il Premio dei Campioni. Era una gara molto bella, una gara secca, un percorso a tempo, alla quale poteva partecipare solo chi aveva vinto determinate gare, tipo Olimpiadi, mondiali europei, lo stesso Gp di Aquisgrana… Una quindicina di concorrenti in tutto, la crema della crema. La mattina di quel giorno Graziano e io abbiamo fatto colazione insieme, e lui mi ha detto: mah, lo sai che ti dico? Io ci provo, io ci provo. Era primo a entrare in questa gara a tempo enorme. È partito a tavoletta e non c’è stata più storia per nessuno. E Turvey è morto proprio ad Aquisgrana, in campo, qualche anno dopo, per un arresto cardiaco. La cosa incredibile era vedere come Graziano riusciva a fissarsi su un obiettivo, come lo preparava mentalmente, ci lavorava sopra, si dava una carica psicologica enorme, poi non parlava più con nessuno e di solito l’obiettivo lo centrava».

Un cavallo che più di altri lei associa ad Aquisgrana?

«Credo che tutti i cavalli che hanno vinto le grandi gare ad Aquisgrana siano da ricordare sullo stesso piano. Vincere lì vuol dire essere davvero grandi cavalli».

Quando è stata lì come capo-équipe non ha mai avuto un attimo di nostalgia?

«Ma no, io trovo che ogni stagione abbia i suoi momenti. Io ad Aquisgrana ho vissuto esperienze che non tutti possono dire di aver vissuto e quindi mi ritengo molto fortunata, ho vissuto un tempo bellissimo della nostra equitazione con dei personaggi favolosi».

Tornandoci da giudice?

«Mi sono trovata benissimo perché, preoccupazione a parte, ho ritrovato tante vecchie conoscenze. Poi però è vero che un concorso del genere lo si vive in un conflitto di emozioni. Perché magari mentre si è seduti in giuria lo sguardo cade involontariamente sulla tribuna di destra, dove noi ci mettevamo sempre in settima fila perché il generale Lequio voleva che stessimo lì, mentre invece Graziano era convinto che fosse meglio la prima per le sue solite scaramanzie, ti ricordi di quando… quella volta che… ecco questo ostacolo è cambiato… Insomma, la mente non sta ferma, però la cosa più importante è essere consapevoli di quello che si sta facendo ora, adesso. I ricordi sono una bella cosa da tenere dentro noi stessi e da tirare fuori solo ogni tanto».