Arezzo, 8 gennaio 2024 – La bicicletta, agli inizi della sua avventura, era vista come un vero e proprio anti-cavallo.
Eppure, in modo molto casuale e forse per questo così simpatico, recentemente è nata una collaborazione tra gli appassionati di cavalli e di libri di cavalli e un ciclista, collezionatore di libri di biciclette.
Due passioni diverse: quella dell’Associazione culturale Pievecavalli, con la sua biblioteca equester e quella di Vittorio Landucci che oltre ad essere un ciclista è anche un collezionista di libri su ciclismo e biciclette.
Galeotti un libro e una finestra aperta le storie sono uscite da pagine e ricordi, che alla fine hanno ripreso aria raccontandole ancora una volta, e nel mentre se ne sono tirate dietro altre.
Vi proponiamo di seguito quella scritta da Vittorio Landucci per Biciclette d’Epoca.net: una storia poco conosciuta, con dentro un’altra storia per noi molto più familiare.
Questo è il racconto della leggenda ria sfida tra un cavallo e un anti- cavallo, tra una serie di corsieri e un cavallo d’acciaio, tra un “Diavolo nero”
e un cowboy, tra Romolo Buni (l’originale) e un Buffalo Bill (il falso, l’impostore).
Fino alla comparsa del bicicletto, del grand-bi e della bicicletta, l’uomo, per percorrere lunghe distanze si è sempre servito del cavallo, ed è per questo che nei primi decenni della comparsa del mezzo a due ruote si è pensato di imitare il nobile animale.
Le prime gare non si svolgono in strada bensì in pista, proprio come le corse ippiche, e spesso si disputano dopo le corse dei cavalli con i corridori vestiti
come i fantini.
È in contesti come questi che cominciano le prime sfide: è più veloce l’uomo in bicicletta o quello a cavallo?
È più resistente il primo o il secondo?
Indubbiamente l’uomo, rispetto a tutti gli altri animali, si è evoluto come esperto di caccia di persistenza, cioè seguendo le prede per molti chilometri correndo.
Ne sono la prova alcune caratteristiche fisiche che ci appartengono: i tendini e i legamenti dei piedi e delle caviglie, il legamento nucale che tiene la testa ferma durante la corsa, i muscoli dei glutei e la possibilità di raffreddare il nostro corpo grazie al sudore. Oltre a queste specificità, ci sono altre prerogative che ci contraddistinguono e sono il pensiero astratto, la resilienza e la determinazione nel compiere una corsa sapendo immaginare l’obiettivo finale anche se non lo vediamo.
L’uomo per millenni ha fatto della propria resistenza nella corsa l’arma decisiva per la lotta alla sopravvivenza e ancora oggi, nonostante non abbia l’esigenza di cacciare per sopravvivere, se si cimenta in gare di resistenza è capace di andare avanti anche per 440 km a piedi (vedi gare come il Tor de Glacier) o in bicicletta come la Parigi-Brest-Parigi di 1200 km.
Ecco allora che il ciclista non si accontenta di sfidare i propri simili in gare più o meno lunghe, ma vuol dimostrare che l’unione tra il mezzo meccanico e l’uomo può soppiantare il cavallo.
Addirittura uno dei più grandi giornalisti sportivi di Francia, Pierre Giffard, ideatore per l’appunto di corse podistiche come la Parigi-Belfort di 380 chilometri e la sopracitata Parigi-Brest-Parigi nel 1891, ha pubblicato nel 1899 un libro dal titolo quantomai eloquente, “La fin du Cheval”, dove nella copertina appare al centro la testa di un cavallo grigio dallo sguardo decisamente arrabbiato e, sopra e sotto, uomini in automobile e in bicicletta.
Le primissime copie furono boicottate e fatte sparire con una campagna diffamatoria dal conte Albert De Dion, un uomo profondamente conservatore, colui che nel 1900 fonderà il quotidiano sportivo L’Auto-Vélo che nel 1903 organizzerà il Tour de France. Di lui parliamo anche nell’articolo dedicato alla bici del Vittoriale.
Il Cody sbagliato
Ma torniamo alla sfida. A tal proposito, si legge nel capolavoro di Claudio Gregori “Giovanni Cuniolo”:
«Giuseppe Nuvolari (fratello di Arturo e zio di Tazio, mitico pilota degli Anni ’30) a Genova verrà scelto per la sfida a “Buffalo Bill”. Non si tratta del vero Buffalo Bill, William Frederick Cody, ma di Samuel Franklyn Cody, uno showman, che firmandosi F. Cody usa e abusa di quel nome famoso.
La sfida di grande richiamo, dal 1892, è bicicletta contro cavallo. Dopo cinque ore di gara, Nuvolari finirà battuto di quattro chilometri, come probabilmente prevedeva il copione. Le sfide con Buffalo Bill richiamavano le moltitudini e garantivano un ingaggio da favola. Più che gare, però, erano esibizioni.
Col tempo scadranno a show da circo di nessun valore sportivo, legati alle scommesse, con perdenti predestinati, disposti, per un buon ingaggio, a essere battuti non solo da Samuel Franklyn Cody, ma anche dalla sua convivente Lela e dai figli di lei, Vivien e Leon.
Samuel F. Cody, però, non è un volgare impostore, ma a suo modo un intraprendente genio. Entrerà nella storia del volo.
Costruirà aquiloni in grado di trasportare un uomo. Quattordici anni dopo la sfida con Nuvolari sarà lui a progettare il British Army Aeroplane n. 1, primo aeroplano dell’esercito britannico, che avrà due ruote di bicicletta all’estremità delle ali.
Giuseppe Nuvolari potrà dire sempre di aver gareggiato contro il padre della RAF, la Royal Air Force.
Un cowboy che il 7 agosto 1913, provando l’ultimo dei suoi velivoli, si schianterà al suolo con un passeggero audace, il giocatore di cricket
William Evans, e morirà a 46 anni, ben prima del vero Buffalo Bill.
Questi, con il suo Wild West Show, nell’aprile 1906, cavalcherà non nelle praterie dei bufali contro i Sioux, ma sulla terra di Cuniolo: sarà il 20 a Pavia, il 21 ad Alessandria, dal 22 al 26 a Torino, il 27 ad Asti.
Si esibirà in 34 città italiane, ma non gareggerà contro ciclisti».
Sempre a proposito del vero Buffalo Bill, nel libro “Argento e vecchi filetti” di Maria Cristina Magri, vice-presidente della Associazione Culturale Pievecavalli a Città della Pieve, si legge della sfida svoltasi a Roma nel 1901 tra l’ormai vecchio Buffalo Bill e non i butteri toscani, come spesso
erroneamente si è scritto, ma bensì quelli laziali, più precisamente di Cisterna di Latina, nell’Agro Pontino.
I butteri toscani nascono infatti da un nucleo di laziali che venne fatto trasferire dai grandi latifondisti di Roma e dintorni.
Uno di loro, Augusto Imperiali, vincerà la sfida domando un vivacissimo puledro che aveva disarcionato diversi cowboy americani del clan di Buffalo Bill.
La sfida con Buni
Romolo Buni nasce a Milano nel 1871 e fa parte, assieme a corridori del calibro di Enrico Brusoni (olimpionico a Parigi nel 1900), Luigi Pontecchi e tanti
altri ancora, della genesi del ciclismo agonistico in Italia. Buni è il “babbo” di Girardengo e il “nonno” di Coppi. Pistard di fama internazionale, è soprannominato “Il Piccolo Diavolo Nero” perché scende in pista sempre vestito di nero e perché fa mulinare le gambe a una frequenza impressionante.
Sarà il primo “Diavolo” nella storia del ciclismo, dopo lui Giovanni Gerbi sarà “Diavolo Rosso”: rossa la maglia, la bicicletta e secondo la leggenda anche gli occhi e la catena quando pedalava a ritmi vertiginosi.
A Buni è associato il celebre motto “Mola Buni!”.
Da dove nasce questa storia? Succede che nel 1893 a Milano batte gli assi della pista mondiale, i francesi Médinger e Cassignard, in una gara sui
cinque chilometri dietro ad allenatori. Al termine del quarto giro, Médinger si ritira ma Buni continua a pedalare: è a quel punto che il pubblico milanese comincia a urlare “Mola Buni!” e poi sempre più forte “Mo-la Bu-ni! Mo-la Bu-ni!”.
Ma Buni non molla e stabilisce il nuovo record mondiale con il tempo di sette minuti e trentadue secondi. Ma oltre alla pista si cimenta anche nelle prime storiche edizioni delle gare in linea, con risultati di tutto rispetto. Nel 1902 fa parte dei fondatori dell’US Milanese e nel 1905 viene chiamato a dare il via alla prima edizione del Giro di Lombardia, mentre nel 1909, dopo quattro anni lontano dalle gare, prende il via al primo Giro d’Italia, ritirandosi però nella seconda tappa.
Un giorno, nella rivista “Il Ciclo” spicca un disegno che si fa notare.
Un uomo con lunghi capelli al vento, cappello e frustino a galoppo sul suo cavallo; poco dietro, su una pista parallela, un ciclista baffuto che pedala all’inseguimento. Sotto al disegno si legge della sfida tra Buffalo Bill e Meyer a Parigi con la vittoria del primo che però ha cambiato cavallo a
ogni miglio percorso.
Successivamente giunge voce a Buni che Cody verrà in Italia per una sfida contro un ciclista al Trotter di Milano.
Si legge nell’Illustrazione Ciclistica di quell’anno: «Cody sarà a Milano verso la fine del corrente mese e porterà seco Meyer, un ciclista che viene per assicurare che una prova si farà. Tuttavia Mr. Cody fa pubblicare la seguente sfida: “Nel dubbio che qualcuno sospetti che il mio match con il Sig. Meyer sia regolato da un precedente accordo, cosicché il Sig. Meyer sia obbligato a non vincere, se vi sono in Milano od in qualunque parte d’Italia dei ciclisti i quali intendano disputare in ciclo lo stesso match contro di me a cavallo, io sono disposto ad accettare la scommessa contro chicchessia, su qualunque distanza e per qualsiasi importo di denaro”.
Al momento di andare in macchina apprendiamo che i signori Buni e Cantù (tandem) hanno già risposto alla sfida di Cody. L’esito dell’avvenimento è quindi assicurato: sarà enorme. Milano tutta accorrerà!
Per conto nostro raccomandiamo ai ciclisti di imporsi nel dettare le condizioni».
Alla fine si decide per la sfida a un solo corridore, Buni. Dieci ore di gara spalmate in tre giorni, dal 9 all’11 marzo 1894.
Dieci cavalli per Cody e… una bici e un paio di gambe per il ciclista Buni.
Il primo giorno di gara non c’è il pubblico delle grandi occasioni, complice un po’ il cattivo tempo, un po’ le polemiche che avevano preceduto il match relative al maltrattamento dei cavalli.
Buni pedala sulla pista in cemento esterna a quella da trotto, novecento metri al giro contro seicento. In questo modo per il pubblico è davvero complicato capire l’andamento della gara, per cui l’unico momento interessante per il pubblico è il cambio di cavallo da parte di Cody ogni due giri di pista.
Partiti: in gara all’ippodromo!
Un vetturino travestito da indiano tiene i cavalli pronti per il cambio ma Cody arriva al secondo cambio con il cavallo azzoppato che lo costringe a correre a piedi per un centinaio di metri.
Dopo la prima ora Buni ha percorso trentaquattro chilometri e mezzo. Un’eccellente media!
Nella seconda ora cala il passo entrambi ma nella terza Buni ritrova quello iniziale.
A fine giornata sono quasi novantanove chilometri per Buni e centoquattro per Cody.
Il giorno seguente ancor meno pubblico sugli spalti (avrebbero atteso l’ultimo e decisivo giorno per pagare il biglietto?).
Buni migliora a fine prova di ben due chilometri rispetto al giorno prima ma, anche Cody si supera portando il proprio vantaggio a ben otto chilometri
e mezzo.
Nel frattempo, sulla rivista “Il Ciclo” di quel giorno esce un articolo che pone seri dubbi sull’autenticità del presunto Buffalo Bill: «Ci viene replicata-
mente domandato se Cody e Buffalo Bill sono l’identica persona. Quello che possiamo assicurare è che non lo sono, perché li abbiamo visti entrambi. Saranno probabilmente dello stesso paese, anzi entrambi si intitolano “Re dei cowboy del West”.
Non sappiamo però se questo sia un titolo onorifico, come da noi “cavaliere” oppure come nei circhi i “re delle sberle fisse”.
In caso diverso sarebbe una faccenda seria per la libera America del Nord l’avere due Re, sul serio. Di più ci vieta di dire la nostra ignoranza».
Comunque l’ultimo giorno il pubblico è triplicato. Per gli sfidanti quattro ore di gara con otto chilometri da recuperare per il ciclista. Nella prima ora Buni sembra un ragno curvo e concentrato sul suo “cavallo d’acciaio”.
A un certo punto lo speaker annuncia: «Buni è avanti di un chilometro!».
La folla rispose con il celebre «Mo-la Bu-ni! Mo-la Bu-ni!». A quel punto Cody, temendo il peggio comincia a cambiare i cavalli più frequentemente,
e alla fine delle quattro ore, nonostante una serie infinita di volate del “Diavolo Nero”, ha la meglio: 131,5 km contro 124,5 km.
A conclusione delle tre giornate il totalizzatore segna 335,775 km per Cody e 319,750 per Buni. Che poi a ben pensarci Romolo il ciclista non era proprio uscito sconfitto dalla sfida: un uomo in bicicletta aveva fatto quasi quanto una intera scuderia.
La tournèe italiana di Samuel F.Cody continuò fino all’inverno 1895-96.
Tanti altri accettarono la sfida bicicletta-cavalli, ma saranno sempre battuti.
L’Unione Velocipedistica Italiana, chiamata a pronunciarsi sulla correttezza di tali match, finì per vietarli ai propri iscritti, pena la squalifi-
ca dalle gare per alcuni mesi. A margine, la parabola discendente del “Diavolo Nero” era cominciata, così come quella della pista: il pubblico e la stampa sportiva erano sempre più concentrati sulle gare su strada, più affascinanti e magari meno inquinate dalle scommesse e dai totalizzatori.
Nel 1902 Buni si classifica terzo nella 540 chilometri organizzata dalla Gazzetta dello Sport.
Nel 1917 coglie l’ultima vittoria in pista nella gara esibizione delle vecchie glorie ciclistiche al Sempione.
Si spegne il 14 maggio 1939 nella sua casa
milanese.
Samuel Franklin Cody come detto si schianta invece al suolo il 7 agosto del 1913 e viene sepolto con gli onori militari.
Conquistò la gloria in maniera diversa da Buffalo Bill ma, nonostante ciò, l’equivoco dei due “Re” continua fino ai giorni nostri.
Forse questo breve racconto, ma soprattutto le foto dei manifesti che lo accompagnano, ci faranno riflettere sul fatto che Cody non fosse un
impostore.
Nei poster infatti non appare mai la scritta Buffalo Bill.
E poi, a pensarci bene come sarebbe stato possibile per Samuel Franklin Cody imitare un circo viaggiante capace di ospitare diciottomila spettatori come quello di William Frederick Cody?
Qui un articolo su La Biblioteca del Ciclista, da In Toscana, sempre di Vittorio Landucci