Maremma mi fece

Una terra dura, che disfece Pia de’ Tolomei ma ha costruito un cavallo che ci ha aiutato a fare la nostra storia: il Maremmano

Grosseto, 18 settembre 2018 – Se un cavallo Maremmano potesse raccontare la storia della sua razza pensiamo che prenderebbe a prestito le parole con cui Dante diede voce a Pia de’ Tolomei e poi, da buon toscanaccio irriverente, le girerebbe al caso suo.

Perché forse Maremma disfece la dolce Pia, ma in compenso ha sicuramente costruito un cavallo fatto a sua immagine e somiglianza: aspro, ruvido, quasi impossibile quando la Maremma era maledetta e poi capace di seguirne il progresso una volta finiti i tempi avvelenati.

Questa è la vera cifra del Maremmano, la costante che lo ha caratterizzato più ancora di un determinato modello morfologico o attitudinale: piccolo e spigoloso quando la Maremma era così amara da regalare solo miseria a chi la abitava, ma capace di trasformarsi in soggetto di maestosa nobiltà appena le condizioni ne permettono un allevamento più ottimale.

Sono queste le due anime del Maremmano, una quasi contrapposta all’altra dalle umane preferenze (quante volte avete sentito gli appassionati del Maremmano vecchio tipo confrontare ricordi e suggestioni con i sostenitori del Maremmano migliorato?) ma che in fondo non sono altro che una unica, lunga storia scritta a due mani dagli uomini che abitavano quelle terre paludose e dai cavalli che permettevano loro di strapparne qualcosa con cui vivere.

Sulla costa tirrenica i cavalli c’erano da millenni, sia chiaro: la somiglianza tra i piccoli, acuti cavalli raffigurati dagli etruschi e gli ispidi, essenziali Maremmani immortalati nei quadri di Fattori riesce ad annullare anche le differenze stilistiche dovute ai duemilacinquecento anni di storia dell’arte che li separano.

Le proporzioni praticamente identiche, il tipo è decisamente lo stesso – un essenziale, sottile e resistentissimo cavallo che attraversa quasi indenne i secoli, e alla fine del XVIII non è per nulla diverso da come lo vedevano gli abitanti dell’Etruria: difatti le zone paludose e malariche che andavano dalla Toscana al Lazio fino al Salernitano non erano cambiate per niente in tutto quel tempo, logico che il loro cavallo rimanesse uguale.

E’ proprio all’inizio del 1800 che la Maremma inizia una delle sue epiche trasformazioni: le piccole, poverissime proprietà in cui era divisa cominciano ad essere assorbite in enormi latifondi appartenenti alle grandi famiglie romane.

Borghese, Sforza Cesarini, Chigi, Caetani di Sermoneta e poi Torlonia e Corsini e via blasonando: nelle loro sterminate aziende si alleva il bestiame brado, unico modo per sfruttarne i difficili pascoli e dal 1829 comincia la bonifica in Toscana (primo passo verso il miglioramento delle condizioni di chi viveva nella zona delle paludi, ma la malaria sarà dura a morire).

Bufale dal Lazio in giù, vacche maremmane dalle grandi corna in Toscana ma tutti avevano anche le loro razzette che fornivano i cavalli necessari ai guardiani delle varie mandrie.

Si trattava di soggetti resistentissimi, con una particolare andatura chiamata portante (un ambio instancabile, che potevano tenere per intere giornate), non particolarmente eleganti né veloci con il loro collo corto e la testa pesante ma molto adatti al lavoro con il bestiame.

Attorno al 1860 i Maremmani cominciano a diventare «vecchi»: in tutto il nuovo Regno non si riescono a trovare i 20.000 cavalli necessari a mettere in sella l’esercito di Vittorio Emanuele II, si profila un business invitante anche per le famiglie aristocratiche romane.

Che per qualche tempo avranno anche chiuso i portoni dei palazzi aviti in faccia a quei parvenue piemontesi, ma capiscono il vantaggio di fornire soggetti adeguati alla rimonta dell’esercito sabaudo e cominciano a migliorare i loro cavalli (che si erano comunque già distinti per la loro resistenza nella guerra di Crimea) con l’immissione di sangue più raffinato: prima con soggetti orientali, poi con P.S.I. adatti alla produzione del mezzosangue ma anche con l’apporto di alcuni soggetti Salernitani e Persano, nonché Clevaland e Hackney e anche russi e trottatori, alla bisogna.

Nel 1894 era già tutto finito, o quasi: l’ippologo Fogliata in quell’anno non aveva trovato nemmeno un rappresentante del vecchio tipo al Concorso Governativo di Grosseto, e la Toscana diventa una delle zone più pregiate per l’ippicoltura nazionale, capace di provvedere i soggetti più ricercati necessari alla cavalleria e agli ufficiali.

La produzione era ancora disarmonica, poco omogenea in quanto a modello ma decisamente quelli che oggi chiamiamo Maremmani erano diventati soggetti «…migliori, più veloci, più distinti ma altresì più esigenti» (Savio-Conforti, op.cit.). Certo, qualche piccola enclave più resistente al miglioramento è sopravvissuta qua e là: zone più isolate, un attaccamento particolare dei proprietari al proprio ideale di cavallo non fanno altro che declinare, una volta di più, la spiccata propensione toscana all’individualismo personalizzato.

Ma che il Maremmano sia irrevocabilmente cambiato è già molto chiaro negli anni ’20, tra una guerra mondiale e l’altra: le stazioni di monta speciali per cavalle selezionate hanno dato i loro frutti e i figli delle fattrici Maremmane cominciano addirittura a vincere nelle competizioni di salto ostacoli: Nasello, Crispa, Capinera, Quotidiana, Ursus del Lasco e tanti altri vennero caprillianamente interpretati dai nostri cavalieri più brillanti che, grazie al sensibile Sistema di Equitazione Naturale inventato dall’affascinante Federigo, riuscirono a cavar fuori il meglio da quei cavalli potenti e dotati di una fierezza di carattere ancora proverbiale.

L’indirizzo prettamente sportivo dato alla razza è ancora oggi evidente, nonostante la crisi attraversata dall’allevamento nazionale tra gli anni cinquanta e novanta: ma gli allevatori dal 1991 hanno ripreso in mano le redini del destino di questi cavalli, e il Ministero dell’Agricoltura ha affidato loro il Libro Genealogico.

Il Maremmano di oggi è un cavallo che incute rispetto per imponenza e solida bellezza: e non sono tanto scafarde e bardelle a ricordarci la sua Maremma, quanto la luce antica che ci sembra di leggergli negli occhi, quello sguardo mai stupito di chi ha visto passare davanti a sé tanti anni, e tanti uomini, e tanti lavori diversi.

E’ la sua capacità di adattarsi a ricordarci cosa era capace di fare anche quando sembrava un altro – ma la sua anima è la stessa, proprio perché somiglia sempre alla sua terra: e non è certo colpa sua se Maremma è cambiata, molto più di quanto abbia mai fatto lui.

E questi sono i butteri e i cavalli dell’Alberese, tra gli ultimi del loro mestiere