Nella memoria delle grandi esplorazioni antartiche, tra nomi e imprese celebrati nei film e libri, esiste una storia marginale; eppure, fondamentale: quella dei pony della spedizione Terra Nova di Robert Falcon Scott (1910–1912). Non sono comparse di un’epoca remota, ma protagonisti silenziosi di una delle sfide più dure mai tentate dall’uomo. Le loro vicende compaiono nei diari originali, negli archivi del Scott Polar Research Institute di Cambridge, nelle lettere degli ufficiali e nelle relazioni veterinarie conservate al National Archives britannico. Una storia vera, aspra, complessa, che mostra quanto il rapporto tra uomo e cavallo possa diventare estremo.
Scott voleva essere il primo uomo a raggiungere il Polo Sud per primo. Era in competizione con un altro esploratore, Roald Amundsen. E per la sua impresa decise di non avvalersi dei cani da slitta, ma scelse dei pony della Manciuria, piccoli cavalli robusti allevati al gelo degli altipiani asiatici.
Questo perché riteneva che fossero abituati a inverni rigidi e potessero, così, sopportare il clima antartico meglio dei cani da slitta. E così dei pony divennero i suoi compagni di questa avventura estrema, ai confini del mondo. A sostenere questa convinzione c’era anche Cecil Meares, esperto di trasporti e membro della squadra, che acquistò i pony nel porto russo di Vladivostok. Il capitano Lawrence Oates, invece, ufficiale di cavalleria dell’esercito britannico, si assunse la responsabilità della loro cura durante la spedizione. In una lettera alla madre scrisse parole reali e struggenti: «Non ho mai visto cavalli più coraggiosi. Fanno ciò che chiediamo senza comprendere dove li stiamo portando.»
Il viaggio verso l’Antartide fu già di per sé un test durissimo. Le tempeste scossero la nav Terra Nova con tale violenza che i pony, nelle stive imbragate, rischiarono più volte di ferirsi o cadere. Un marinaio annotò: «Ogni volta che la nave affondava nella gola di un’onda, il loro respiro diventava un colpo secco dentro il buio.» Quando la spedizione attraccò a Capo Evans, nel gennaio 1911, i cavalli erano dimagriti e stressati, ma, perlomeno, erano vivi.
Erano vivi ma immediatamente tutti compresero che ci sarebbero stati dei problemi in quanto le “scarpe da neve” progettate per i pony, un sistema di zoccoli avvitabili con ampie suole circolari per evitare l’affondamento nella neve soffice, non funzionò. O meglio, l’idea funzionò solo in parte, in quanto sulla Barriera di Ghiaccio di Ross, la più grande piattaforma glaciale dell’Antartico, il terreno cambiava velocemente e gli zoccoli dei pony continuavano a riempirsi di ghiaccio, costringendo Oates e gli uomini a continue soste per pulirli. Immediatamente fu ben chiaro a tutti, che la scelta dei pony non era stata saggia. Non erano nati per quelle condizioni climatiche estreme, ma non per questo si arresero. Continuarono l’avanzata nell’immensità di ghiaccio e gelo.
Il 9 dicembre 1911 Scott scrisse nel suo diario: «I pony soffrono terribilmente e non possiamo ignorarlo. Ma senza di loro non avanzeremmo di un miglio.» È una frase autentica, che rivela il dilemma morale e logistico della spedizione: dipendere da animali non nati per quelle condizioni, sapendo che senza di loro il progetto rischiava di fallire. E così decisero di continuare, nonostante le difficoltà e la sofferenza, in quanto ormai era diventata una questione di sopravvivenza per tutti quanti. Non potevano più tornare indietro. Dovevano arrivare al campo base.
Tra i venti polari, in distese di ghiaccio e neve, dove l’attaccamento alla vita è messo a dura prova, c’era Nobby, uno degli ultimi pony rimasti in forza alla spedizione e che, nonostante tutto, continuava ad essere vivace e resistente: “dalla coda sempre sollevata e lo sguardo in avanti, come se osservasse l’orizzonte”. L’energia e la voglia di vivere di Nobby dava speranza a Scott, che gli era molto affezionato. Ma, quando il gruppo finale partì per l’ultima tappa e raggiungere il Polo, Scott annotò: «Avrei voluto portare Nobby con noi, ma non gli avrei risparmiato sofferenze inutili.» Decise quindi di lasciarlo al campo base.
L’impresa di Scott di arrivare al Polo Sud per primo non riuscì, in quanto ci arrivò per primo il suo rivale che però morì nel viaggio di ritorno. Ma un primato lo siglò: fu l0nìunico a fare un’impresa così estrema con dei cavalli e non dei cani da slitta. E la sua scelta è ben testimoniata e conservata nel Scott Polar Research Institute.
Nell’immensità dell’Antartide, dove il bianco inghiotte ogni traccia, il contributo di quei pony rimane un capitolo minoritario ma indispensabile dell’esplorazione polare. Una storia vera, senza eroismi inventati, che restituisce al cavallo un posto accanto all’uomo anche nei confini più inospitali del mondo.
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