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Home | Cultura equestre | Redwings, il santuario nato da una pony dimenticata

Redwings, il santuario nato da una pony dimenticata

Dal salvataggio di Sheba negli anni Ottanta alla cura di oltre 1.500 equini: la storia di chi ha trasformato un gesto isolato in una rete nazionale di protezione

29 Settembre 2025
di Monica Ciavarella
Redwings, il santuario nato da una pony dimenticata

Era una mattina limpida nel Norfolk quando Sheba, una pony un po’ spelacchiata e denutrita, attirò l’attenzione di una donna che, fortunatamente, non riuscì a voltarsi dall’altra parte. Il sole illuminava i prati di un verde brillante, di quelli che fanno bene all’anima, ma, al contempo, metteva anche ben in vista il corpo di questa pony che raccontava tutta un’altra storia: si contavano le costole con lo sguardo, il pelo era brutto e opaco, poco reattiva, sommersa di mosche e lo sguardo totalmente spento di chi aveva perso ogni fiducia. Quel giorno, negli anni Ottanta, si accese una scintilla che illuminò una grande ingiustizia su cui nessuno aveva mai veramente riflettuto: i cavalli abbandonati per strada o per le campagne.
Wendy Valentine, è questo il nome della donna che quella soleggiata mattina del 1984 non riuscì a voltarsi dall’altra parte di fronte alla sofferenza di Sheba, la pony abbandonata. Non era giusto. Non era giusto che Sheba fosse prima stata utilizzata, molto probabilmente sfruttata viste le condizioni, e poi, quando non più desiderata, portata lontano da casa e lasciata per strada. Così Wendy, decise di adottarla e di salvarla. Ma, contemporaneamente, si rese conto che Sheba non era la sola. Il fenomeno dell’abbandono dei cavalli e pony in Inghilterra era estremamente diffuso, così da quel singolo salvataggio nacque la consapevolezza in Wendy che non era più possibile ignorare la situazione. Così fondò Redwings, un’organizzazione che oggi ospita più di millecinquecento equini sparsi in diversi centri, dalle campagne dell’Inghilterra orientale fino alle strutture più grandi del Warwickshire.
Inizialmente il rifugio era solo una piccolissima scuderia improvvisata, poche mani volenterose e la necessità di nutrire e curare un animale che sembrava senza futuro, ma poco alla volta quella piccola iniziativa prese la forma di un vero e proprio santuario, capace di attirare volontari, veterinari e appassionare tanti sostenitori. Il clima era, e continua tutt’oggi ad essere, quello della necessità e non della retorica: bisognava riparare recinti, procurare fieno, trovare medicine, e intanto dare a cavalli e pony la certezza che non sarebbero stati più usati fino allo stremo.
Chi c’era all’epoca ricorda le prime giornate di lavoro: il freddo che tagliava le mani, la pioggia che entrava dal tetto dei box, le notti passate a vegliare cavalli troppo deboli per reggersi in piedi. Non era un’epopea eroica, ma una lotta contro il tempo e contro l’indifferenza. Ogni cavallo aveva la sua storia: ex purosangue da corsa ridotti a scheletri, pony da fiere lasciati a sé stessi, asini stremati dal lavoro. Ciascuno arrivava con ferite visibili e invisibili, le più temibili. Il compito dei volontari era quello di restituire loro non solo la salute e fiducia verso l’uomo ma, soprattutto, la dignità.
“Quando li guardi negli occhi dopo settimane di cure e ti accorgi che non si ritraggono più ma si lasciano accarezzare, allora è là sai che vale la pena continuare”, raccontano oggi gli operatori che sono numerosissimi e sparsi in tutta l’Inghilterra. Non tutti sopravvivevano, ma quelli che ce la facevano diventavano la prova concreta che si può fare la differenza per delle vite silenziose che non chiedono niente ma donano soltanto.
Con il tempo Redwings è diventato molto più di un rifugio. Dall’iniziale struttura, un po’ improvvisata, è diventata un’associazione che conta numerosi centri, dove visitatori e studenti si trovano di fronte a cavalli non più utili all’uomo, che vivono con le loro cicatrici, spesso non sono più in grado di essere montati e sono segnati da malattie croniche, ma non per questo inutili. È un ribaltamento narrativo: invece di mostrare l’animale come strumento di performance, lo si presenta come individuo degno di rispetto per ciò che è. Chi arriva in un pomeriggio d’estate a Caldecott, tra i recinti verdi e le scuderie ordinate, incontra cavalli dal passo incerto o pony con la schiena incurvata, e capisce che la loro dignità non dipende dalla loro utilità. È questo il cuore del messaggio: un cavallo non deve dimostrare nulla per meritare amore e cura.
La crescita dei santuari di Redwings è stata anche una sfida economica e organizzativa. Le spese veterinarie superano ogni anno milioni di sterline, il personale affronta turni estenuanti, eppure la comunità di volontari e sostenitori continua ad allargarsi. Le prime raccolte fondi furono fatte in occasione delle fiere di paese con delle bancarelle, oggi vengono strutturate delle sono campagne nazionali che coinvolgono migliaia di persone, grazie anche al ruolo sociale centrale di Redwings nell’impegno attivo per la sensibilizzazione dei ragazzi e bambini, scuole e università, sul benessere equino, diventando così uno dei punti di riferimento nazionali.
La storia di Sheba continua a essere raccontata non come favola, ma come insegnamento di ciò che accade quando un singolo gesto interrompe l’abitudine a voltarsi dall’altra parte. Un pony salvato in una giornata di sole ha fatto germogliare il seme della giustizia, generando un movimento che oggi abbraccia un intero Paese. L’eredità di Wendy e Sheba non è romantica ma concreta: dimostra che il rapporto tra uomini e cavalli non si misura in termini di sport, lavoro o prestigio, ma come scrive Rudyard Kipling: “i quattro piedi di un cavallo trasportano l’anima dell’uomo”.

Tags: cavalli cronaca equitazione notizie people people&horse pony rescue
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