C’è un punto, nel nord del mondo, dove la terra finisce e l’oceano diventa tutto. È lì che vivono i pony delle Shetland, piccoli, solidi, scolpiti dal vento e dalla sopravvivenza. È lì che Catherine Munro ha deciso di restare, per ascoltare.
Il suo libro Ponies at the Edge of the World non è un diario di viaggio, né un saggio antropologico nel senso stretto del termine. È piuttosto un atto d’amore nei confronti di una terra estrema e delle creature che la abitano. Munro, antropologa di formazione, si trasferisce nelle isole per studiare il rapporto tra gli abitanti e i loro animali, ma ben presto si accorge che l’osservazione accademica non basta: per capire davvero, bisogna partecipare, sporcarsi le mani di fango e di vento.
I pony delle Shetland, con la loro forza compatta e la criniera scossa dalle tempeste, diventano il filo conduttore di un racconto che intreccia quotidianità, mito e introspezione. In loro Munro vede riflessa la natura del luogo stesso — resistente, selvaggia, indifferente alle logiche del mondo moderno. Ogni descrizione è impregnata di realismo e meraviglia: i pascoli che si affacciano sul mare, la luce che cambia a ogni ora del giorno, le famiglie che vivono ancora in simbiosi con i propri animali.
Tra le righe, si avverte la lentezza delle giornate scandite dal ritmo delle maree, la fatica e la gratitudine di chi alleva pony in un contesto che non concede tregua. Munro non idealizza, non cerca il pittoresco: restituisce piuttosto un ritratto sincero di una comunità che resiste, dove l’uomo e l’animale condividono un destino di dipendenza reciproca. In queste pagine, la vita dei pony non è mai separata da quella delle persone, e ogni gesto quotidiano diventa testimonianza di una relazione antica.
La scrittura è sobria ma poetica, intessuta di osservazioni che nascono dal silenzio più che dalla parola. Munro racconta l’impatto del paesaggio sulle emozioni, la perdita e la rinascita che si riflettono nel ciclo naturale dell’isola. Nei momenti più intensi, la voce dell’autrice si fa quasi contemplativa, come se la narrazione fosse un modo per restituire qualcosa al luogo che l’ha accolta.
La presenza dei pony non è solo materiale: è simbolica. Sono custodi di un equilibrio fragile, esseri che incarnano la libertà e insieme la sopravvivenza. Munro li osserva muoversi tra le tempeste e le distese erbose, e nella loro calma ostinata ritrova una forma di saggezza che appartiene anche all’uomo. Il libro, in fondo, parla proprio di questo: della necessità di abitare il mondo con la stessa dignità dei pony delle Shetland, in equilibrio costante tra vulnerabilità e forza.
Pubblicato nel 2022, Ponies at the Edge of the World è un’opera che si muove sul confine tra memoir e etnografia, tra scienza e poesia. Non risulta ancora tradotto in italiano, e forse è giusto così: la lingua originale conserva quella musicalità ruvida del vento del Nord che sarebbe difficile rendere altrove. Leggerlo significa immergersi in un ritmo diverso, più lento, in cui ogni frase sembra dettata dal respiro del mare e dal passo dei cavalli.
Alla fine del libro, resta una sensazione di quiete e di rispetto. Non per un mondo remoto, ma per un modo di vivere in cui l’uomo non è al centro, bensì parte di un tutto. I pony delle Shetland continuano a pascolare ai margini del mondo, e in quelle isole che sembrano ai confini della civiltà, Catherine Munro ha trovato qualcosa che somiglia all’essenza stessa della connessione: quella tra la terra, l’animale e il cuore umano.
E così, quando si chiude l’ultima pagina, rimane la sensazione che quei cavalli continuino a camminare tra la nebbia del Nord, là dove l’acqua incontra il cielo, portando con sé un insegnamento che non ha bisogno di parole: che anche ai confini del mondo, la vita trova sempre il modo di restare.

























