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Home | People & Horses | Antonio Forgione e Harcare, che in Cina hanno vinto il resto del mondo

Antonio Forgione e Harcare, che in Cina hanno vinto il resto del mondo

Una storia vera a cavallo di Harcare tra leggende e paesaggi da favola, tra la fatica quasi impossibile e quello che hai dentro il cuore

6 Giugno 2025
di Maria Cristina Magri
Antonio Forgione e Harcare, che in Cina hanno vinto il resto del mondo

Lo Xinjiang e i concorrenti del China Super Trec: tra loro Harcare e Antonio Forgione

Antonio Forgione è da tempo un amico di Cavallo Magazine, di quelli che si incontrano in mezzo ai cavalli e poi rimani in contatto, perché le cose che fa sono sempre interessanti da seguire e quindi anche da raccontare.

Gli avevamo fatto il nostro ‘in bocca al lupo’ una settimana fa, alla partenza della sua avventura nel China Super Trec dello Xinjiang: aveva appena scelto Harcare, il suo cavallo, tra altri 500 che l’organizzazione aveva messo a disposizione dei cavalieri esteri.

E oggi possiamo scrivere che Antonio e Harcare ce l’hanno fatta: perché non solo sono arrivati al traguardo insieme, ma sono anche stati i primi tra i cavalieri non cinesi (che montavano tutti i propri cavalli).

Una impresa eccezzionale, una avventura durissima che hanno affrontato e vinto insieme e ha regalato loro fatica, emozioni, ricordi nuovi abbracciati a quelli di sempre.

E anche la consapevolezza profonda di quello che può sapere di essere capaci di fare una cosa del genere, assolutamente fuori dal comune.

Cominciata con una leggenda: quella legata al mantello e ai segni particolari di Harcare, cavallo dal manto isabella con tanto di zebrature agli anteriori.

“Quando sono passato davanti a lui ha sollevato la testa e ha nitrito” ci ha detto Antonio, “ne avevo già provato uno che andava bene, ma non mi aveva convinto del tutto: per me erano tutti uguali, non li conoscevo. E allora ho voluto lui, che in qualche modo con quel nitrito aveva scelto al posto mio” ci ha spiegato Antonio appena sceso dall’aereo al ritorno in Italia.

“Poi una ragazza cinese mi ha detto, sorridendo, che quel particolare segno caratteristico in Mongolia è legato a una leggenda: ai cavalli che nascono con quei segni dicono che l’Aquila abbia donato le sue ali, e diventeranno campioni”.

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E una volta formato il binomio?


“Dopo c’è stata l’iscrizione alla gara: di solito, quando ci si iscrive, ti consegnano il marsupio, il cappellino della gara, lo zainetto, i vari gadget della competizione. Invece a noi hanno consegnato, come regalo, un kit di primo soccorso, una coperta termica per le basse temperature in caso di emergenza, un fischietto a lunga portata che si sente fino a 5 km e alcune fiale di un medicinale, con relativa siringa (ma si poteva anche bere). Serviva a surriscaldare il corpo per sei ore, in caso ci fossimo persi di notte. Perché avremmo visto posti spettacolari, ma arrivando anche a 3300 metri di altitudine c’era il pericolo di assideramento, se ci fossimo smarriti e ci avesse sorpreso la notte”.

Altre differenze con le gare di Endurance?


“Ad Harcare ho comprato un sottosella nuovo, la testiera leggera in materiale sintetico, tutta l’attrezzatura: me lo sono preparato per bene. Ma lì non c’è assistenza. Questa è una differenza fondamentale. Allora ho sopperito io, cercando ogni pozza d’acqua, anche la più piccola, per rinfrescargli le gambe e bagnarlo. Non avevo la spugna, quindi usavo il casco come fosse una tazza. Spesso l’acqua era fangosa: alla fine me lo rimettevo in testa e mi sporcavo tutto, ma ne è valsa la pena. Altri cavalieri ridevano vedendomi, ma poi, al terzo giorno, sono cominciati i ritiri e le eliminazioni, e allora in tanti hanno cominciato a fare come me.
Percorrevamo giornalmente 100 km ed eravamo solo noi e il cavallo, uguale più o meno per tutti. Alla fine, la gara serviva a testare il cavaliere: sapevi che dovevi affrontare tutti quei chilometri, e quindi ogni cosa che poteva aiutare il cavallo, la dovevi fare”.

Non era la sola difficoltà, comunque.


“Gli ultimi due giorni sono stati veramente duri, perché siamo arrivati dove c’erano dei dislivelli pazzeschi: passavamo da 800 a 3300 metri sul livello del mare in 6 km. Arrivavi in cima e c’era un freddo che sembrava ti tagliassero le orecchie col coltello, e poi riscendevi dall’altro lato.
Noi stranieri abbiamo fatto la gara fondamentalmente tutti insieme. Poi, l’ultimo giorno, avevamo gli ultimi 80 km da percorrere, e al trentesimo chilometro c’era una salita che, dopo tutti quei giorni di fatica, ti dava lo sconforto. Però a quel punto ho detto: ‘OK, siamo qua. O do una mano al cavallo o non ce la faccio’.
Quindi sono smontato di sella, anche se il ragazzo spagnolo mi ha detto: ‘Tu sei fuori di testa’. Mi sono messo il cavallo dietro; all’inizio Harcare non mi voleva seguire, ma poi la strategia ha pagato: dopo 6 km di salita lui era più fresco, mentre i cavalli degli altri, che non erano mai scesi, erano veramente abbattuti. Poi cominciava una discesa molto ripida, dove i cavalli scivolavano a ogni passo”.

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E come hai fatto?


“Ho pensato che questi cavalli ci vivono sulle montagne, quindi sono in grado di scendere da soli: ho cominciato a correre, e se lui mi seguiva avremmo recuperato un po’ di tempo. Così ho fatto 9 km di corsa a piedi, con Harcare che mi seguiva, e sono arrivato al punto di controllo degli ultimi 20 km con 40 minuti di vantaggio su tutti.
A quel punto dentro di me ho pensato di poter fare una bella gara e sono ripartito. Ma dopo 5 km mi è partito il cervello per la stanchezza, ero finito fisicamente, e ho detto: ‘No, basta, mi fermo. Non ce la faccio più”.

Cos’è stato a farti andare avanti?


“Mentre mi girava questo pensiero in testa, sento tremare la terra. Mi giro e vedo arrivare un branco di cavalli selvaggi: per fortuna ho il video, altrimenti sarebbe difficile da credere…
Arrivati questi compagni selvaggi, il mio cavallo comincia a correre: non ho capito se scappava da loro o se li guidava, sinceramente. Ma ho fatto 6 km reggendomi sul cavallo con il branco che mi inseguiva.
Noi non avevamo un percorso segnato, ma una mappa offline sul cellulare, dove c’era una traccia, e noi vedevamo solo il nostro puntino che si muoveva su quella linea. Ebbene, in quei 6 km con i cavalli che mi inseguivano, il mio puntino è rimasto sempre sulla strada giusta. Una cosa incredibile”.

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Antonio e Harcare immediatamente dopo l’arrivo: le foto sono quelle dei nonni di Antonio, le ha tenute con sè per tutta la gara

E poi?


“Dopo quei 6 km siamo arrivati a un fiume. Anche di questo ho il video, perché ero da solo e li facevo anche per parlare, per darmi forza. Ho detto anche delle stupidaggini, perché giuro, non sapevo come andare avanti.
Mentre il cavallo beveva un po’ d’acqua, ho visto le due cinesi davanti a noi. Le ha viste anche Harcare, e abbiamo accelerato un po’ per metterci sulla loro scia, in gruppo: ha funzionato.
Siamo arrivati settimi assoluti, primi tra tutti gli stranieri”.

Come ti sei sentito una volta tagliato il traguardo?


“È stata un’emozione fortissima. Soprattutto ho ripensato alle parole che mi ha detto un mio amico arabo due mesi fa.
Chiacchieravo tanto di questa cosa, e lui mi ha chiesto: ‘Ma tu sai veramente cosa stai andando a fare?’
Perché lui, qualche anno fa, aveva assistito a una gara simile, e mi ha detto: ‘Fidati, ti puoi allenare quando vuoi, sia fisicamente che mentalmente. Ti servirà, perché a quelle altitudini prima o poi il fisico molla. Però ricordati una cosa: negli ultimi giorni, per chiudere la gara, quando non hai più il fisico né la testa, solo una cosa ti può servire: il cuore.
Quindi se hai un motivo vero per fare la gara, vai. Ma se non c’è quel motivo, mollerai anche se sei allenato.’
E davvero, giuro, ho ripensato a quel discorso proprio quando c’erano i cavalli che mi inseguivano. Mi hanno accompagnato… e poi la leggenda che mi avevano raccontato all’inizio, dei cavalli come Harcare… È stata davvero come una favola, ma era tutto vero, e stava succedendo proprio a me”.

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E attorno a voi, durante la gara?


“Paesaggi stupendi, incredibili. Attraversavamo tanti piccoli villaggi fatti di tende, da cui uscivano bambini che ci rincorrevano gridando ‘Già-yio!’, che vuol dire ‘Forza, ce la fai!’. Alcuni mi chiedevano di scendere da cavallo per fare una foto insieme, così tante volte mi fermavo al volo, scattavo la foto e risalivo in sella.
Quando sono arrivato al traguardo – primo tra gli stranieri, senza mai cambiare cavallo – mi ha accolto una folla incredibile, nemmeno Cristiano Ronaldo! Così ha detto Rosalinda, l’istruttrice federale che segue i nostri ragazzi nell’Endurance e che ho voluto portare con me in questa avventura.
È davvero un Paese dedicato ai cavalli: ci sono cavalli e persone che vivono con i cavalli ovunque, in ogni angolo”.

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La cosa che ti ha stupito di più?


“La filosofia dei nomadi è molto simile a quella di mio nonno, che si stupiva per tante nostre ‘raffinatezze’ nell’equitazione. Il mio cavallo aveva quattro ferri forgiati a mano, si vedevano ancora i colpi del martello. Non ha perso un chiodo, non aveva gonfiori né dolori.
Ogni sera, dopo 100 km, chiedevo al proprietario: ‘Gli diamo un po’ di mangime?’ e lui rideva: ‘Il cavallo non lo conosce, meglio di no’. Gli mettevano una corda sulla testa e lo lasciavano libero. Rimaneva attorno al campo tutta la notte a pascolare. La mattina lo riprendevamo, sella e si ripartiva. Così ha fatto 500 chilometri, senza un solo problema. Perché questi cavalli vivono così ogni giorno: 60, 80 km al giorno lavorando con il bestiame, poi si riposano”.

Secondo te, come stava Harcare alla fine della gara?


“Appena sono sceso, ho passato il cancello veterinario e mentre facevamo le foto, loro l’hanno liberato. È corso in mezzo agli altri cavalli e si è messo a pascolare tranquillo.
Io gli ho lasciato tutto ciò che avevo comprato per lui: sella, finimenti… così potranno montarlo con quello. Il giorno dopo, mentre ero sull’aereo, mi hanno mandato un video: l’avevano liberato nella prateria. Non lo monteranno per un bel po’ di tempo”.

Che carattere ha Harcare?


“All’inizio non si faceva toccare. Se mi avvicinavo con la sella, soffiava. Il primo giorno, verso il 20° km, ho provato a bagnargli la testa con un po’ d’acqua: è impazzito, girava su se stesso per buttarmi giù.
L’ultimo giorno gli ho fatto la doccia con il casco. Correvo a piedi e lui mi seguiva senza redini. È un cavallo di un’intelligenza straordinaria. Non aveva mai fatto una gara, ma in cinque giorni ha imparato tutto: ai primi cancelli veterinari non sapeva neanche cosa fosse un trotto, ci hanno dovuto battere le mani per farlo partire. L’ultimo giorno, trottava come un professionista.
Gli davo la rana con la bocca e partiva quando glielo chiedevo, senza comandi con le gambe. Davvero incredibile”.

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Ti manca?


“Dico la verità: volevo portarlo a casa. Ma mi hanno spiegato che ci sono procedure molto complicate. Magari in futuro, vedremo. L’ho curato con tutta l’attenzione possibile, mi sono perso tutti gli spettacoli e le danze che organizzavano per noi, ma ne è valsa la pena. Si meritava ogni gesto, ogni cura”.

Avete fatto festa dopo la gara?


“L’ultima sera ci hanno invitati a una cena mongola, dentro una tenda. C’era questo tavolo rotondo che girava, e hanno ucciso un agnello per noi. Generosissimi.
Siccome sono arrivato nella top ten, sono andato a premio e ho deciso di lasciare il premio ai bambini degli ultimi due villaggi che avevamo attraversato”.

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Un Paese di gente di cavalli.


“Sì, davvero. Non conoscevo questo posto, ma chi ama i cavalli deve andarci. Zhaosu è la città dei cavalli. Appena scendi all’aeroporto ci sono statue ovunque, ogni dettaglio – dagli appendiabiti alla reception degli alberghi – ha la forma di un cavallo. Quadri di cavalli ovunque. E fuori, praterie infinite con branchi veri. Una cosa pazzesca. Non pensavo esistesse un luogo così”.

E la cucina? Sei del mestiere, non è un dettaglio secondario.


“All’inizio ero perplesso: sempre lo stesso cibo. Verdure piccanti, cipolle piccanti. Patate, uova e spaghetti di riso. Sempre.
Al terzo giorno lo spagnolo sognava un McDonald, e se speri in un McDonald vuol dire che va male.
Però sai che ti dico? Ho perso cinque chili e mi sentivo fortissimo. L’alimentazione è naturale, sana. Forse è anche grazie a quella se ho fatto tutti quei chilometri. Magari non eri soddisfatto quando mangiavi, ma fisicamente… mai stato così bene”.

Il ricordo più bello, dopo Harcare?


“Tutte le persone che uscivano dalle tende per incitarci, come quando da noi passa il Giro d’Italia. C’era chi ci offriva una banana, chi una bottiglia d’acqua.
Lì i cavalli li conoscono tutti, e tutti erano con noi nella fatica. Indimenticabile”.

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Tags: abruzzo antonio forgione china super trec harcare leggende lunghe distanze mongolia xinjiang yli zebrature
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