Eric Lamaze: oltre il limite

La malattia, lo sport, la squadra, i giovani, i progetti, le vittorie: il campione olimpico di Pechino 2008 si racconta in occasione dell’incontro organizzato da Rolex con i giornalisti a Piazza di Siena

Eric Lamaze (ph. Peggy Schroeder/Rolex)

Roma, lunedì 30 maggio 2022 – Eric Lamaze sa che tutti noi sappiamo, e di questo tutti noi siamo consapevoli. Perché è stato lui a parlarne apertamente fin dal principio, appena trovate le forze per farlo: in questo modo scongiurando preventivamente qualunque possibile ipocrisia, o anche solo equivoco, o anche solo condizionamento. No: lui ha detto tutto della sua malattia apertamente, quindi sa di non dover spiegare più nulla, quindi sa che scusandosi per essere arrivato leggermente in ritardo all’appuntamento previsto dicendo «Ho fatto un po’ fatica perché questa mattina mi sono svegliato con una parte del corpo paralizzata» non deve aggiungere altro, non deve dire perché, non deve perdere né tempo né energie per spiegare nulla. Lui sa e noi sappiamo: da parte sua una capacità straordinaria, eccezionale, quasi sovrumana di affrontare tutto. E anche un comportamento estremamente intelligente: infatti le cose così possono andare veloci, i discorsi fluire rapidi, le azioni partire immediate, proprio come lui è sempre stato abituato a fare stando in sella e disintegrando la concorrenza di qualunque avversario bruciandola su cavalli che via via si sono chiamati Cagney, Hickstead, Zigali, Fine Lady, Chacco Kid…

L’appuntamento organizzato da Rolex – di cui Eric Lamaze è testimonial da anni ormai – è a Piazza di Siena alle 10 di sabato 28 maggio. Lui qui ha vinto ben due volte il Gran Premio quando ancora non era Rolex e il terreno era in sabbia e non in erba: nel 2011 con Hickstead, nel 2014 con Zigali. Dopo i saluti e le strette di mano e gli abbracci tra i giornalisti presenti e il campione canadese, Merrick Haydon – perfetto ospite e padrone di casa nella riunione organizzata presso il palco Rolex – parte da qui, da queste due vittorie, sebbene sia la prima, quella ottenuta in sella all’indimenticabile Hickstead, quella di cui Lamaze parla con maggiore emozione… E poi via libera alle domande da parte di tutti.

«Barrage con quattordici cavalli. Nick Skelton era terzo a partire e ha fatto un percorso che tutti abbiamo considerato imbattibile. Ma poi Michel Robert l’ha superato e tutti sono rimasti scioccati quando Michael Whitaker a sua volta ha superato Michel! Io ho deciso di andare dal numero due al tre tagliando la linea il più possibile, il che avrebbe voluto dire affrontare l’oxer numero tre con una traiettoria molto angolata e poi andare diretto sulla successiva gabbia. Così ho fatto la linea dall’uno al due proprio come tutti gli altri cavalieri, con lo stesso numero di falcate, poi dopo il due ho aperto molto presto la mia redine destra al massimo facendo capire chiaramente a Hickstead le mie intenzioni e lui si è piegato verso terra come una motocicletta al massimo della velocità, una cosa ai limiti del credibile… Siamo atterrati volando oltre quell’oxer alto 1.55 e il mio cavallo non aveva idea di quale sarebbe stato l’ostacolo successivo ma grazie a quella traiettoria angolata poi ci siamo trovati perfettamente in linea perpendicolare sulla gabbia, dove invece tutti gli altri avevano fatto un avvicinamento con una curva. Hickstead non ha toccato una sola barriera: credo che alla fine il nostro vantaggio sia stato di circa due secondi».

Dall’inizio di quest’anno lei è divenuto il commissario tecnico della squadra canadese di salto ostacoli: naturale quindi chiederle quali siano state le sue sensazioni nel passare dal ruolo di cavaliere a quello di tecnico…

«Nel corso degli ultimi due anni della mia carriera di cavaliere il punto è sempre stato quello di capire se avrei potuto continuare finché ce l’avessi fatta, garantendo però la sicurezza dei miei cavalli. Per me, la sicurezza dei miei cavalli è sempre stata più importante della mia. Dopo lo Csio di Calgary in settembre, dove abbiamo vinto la Coppa delle Nazioni, ho fatto degli esami clinici dai quali è risultato che avevo avuto per la quinta volta delle gravi emorragie nel cervello. I medici si sono resi conto che questi fenomeni di sanguinamento potevano dipendere dall’impatto nel momento in cui il cavallo si riceve a terra dopo un salto… È stato un momento tremendo per me, la cui conseguenza sono stati tre mesi di immobilità a letto con solo un’ora al giorno di possibile movimento molto contenuto. Quando poi in dicembre sono andato a Ginevra per la cerimonia di ritiro dallo sport di Fine Lady, beh… è stato uno sforzo enorme: avevo un braccio paralizzato e anche metà della mia faccia ugualmente paralizzata. Quando sono entrato in campo ero molto emozionato: mi sono fermato un attimo e mi sono reso conto che ormai questa sarebbe stata la mia realtà. Sono tornato nel mio van, mi sono chiuso dentro per poter piangere in solitudine, ma poi ne sono uscito deciso a combattere con tutte le mie forze per continuare a vivere la mia vita. Devo continuare a vivere la mia vita».

Ed è a questo punto che arriva la proposta della federazione canadese…

«James Hood ha dimostrato tutta la sua fiducia in me affidandomi il ruolo di chef d’équipe: durante tutta la mia carriera di cavaliere ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto prima o poi ricoprire quell’incarico. Voglio continuare ad aiutare la squadra del mio Paese, e voglio farlo portando giovani cavalieri al vertice del nostro sport. Anche da cavaliere ho sempre pensato che non ci sono giovani emergenti in numero sufficiente, pensando anche che ci sono delle cose che possono essere fatte per migliorare. James e io insieme possiamo davvero farle, queste cose, per la squadra canadese. Mi sono reso conto di avere più creatività e più idee adesso che ho smesso di montare di quanto non fosse in precedenza, anche perché in tutti questi anni da cavaliere sinceramente non ho mai avuto idea di che cosa la nostra federazione stesse facendo davvero… Anche James sta imparando di più circa i cavalli e i cavalieri. Sono certo che lavoreremo molto bene insieme, nel presente e nel futuro».

Però sarà comunque molto diverso stare a piedi invece che in sella in occasione delle grandi gare…

«Ho sempre amato tantissimo insegnare: ora io vivo la mia vita attraverso quella degli altri. Quindi invece di fare uno o due percorsi in Coppa delle Nazioni adesso ne faccio otto: perché è come se io montassi insieme a ognuno dei miei cavalieri. Ovviamente non è stato facile per me portare a piedi la bandiera canadese a La Baule (lo Csio di Francia precedente quello di Roma, n.d.r.) e voltarmi indietro vedendo gli altri a cavallo… ma oggi il mio ruolo è questo e io ne sono felice. Se non avessi avuto questa opportunità, beh… oggi sarei devastato. Probabilmente qualcuno mi avrebbe ingaggiato come trainer personale ma per me non sarebbe stato abbastanza perché io amo… le grandi dimensioni, mi piace il grande volume delle cose».

È possibile trasferire la propria dimensione di cavaliere agli altri, agli allievi, ai componenti la squadra… ?

«Al cento per cento. Loro non hanno alcuna scelta se non quella di essere quello che ero io: io avevo un sistema che ha funzionato perfettamente per me nello sport per tantissimi anni e credo che sia da pazzi non cercare di trasferire questa conoscenza nel momento in cui si possiede una formula vincente. Loro devono accettarlo e seguire questa via. Io ero un vincitore, non ho mai accettato la sconfitta, ho sempre guardato avanti: tutti loro devono imparare a farlo. Per esempio, prendiamo la Coppa delle Nazioni ieri (venerdì 27 maggio, n.d.r.): il cavallo di Tiffany Foster (amazzone componente la squadra canadese, n.d.r.) è scivolato nella girata per andare alla triplice Rolex dove poi ha fatto l’errore, ma lei è riuscita a finire con solo quelle 4 penalità. È stata una cosa straordinaria: il cavaliere deve essere capace di attraversare la difficoltà combattendo senza arrendersi mai. Il video di quel percorso lo conserverò per sempre per farlo vedere ai cavalieri giovani, perché perfino il migliore del mondo può trovarsi in un momento di difficoltà e però deve saper reagire. Io ero così».

C’è differenza tra seguire da tecnico una squadra intera invece di singoli cavalieri?

«Nessuna differenza. Non ho un unico e solo sistema: osservo il fisico sia del cavallo sia del cavaliere, il loro modo di muoversi e le loro azioni, e adatto il mio sistema nel modo in cui possa risultare più confacente alle loro esigenze. Quando ho iniziato il mio lavoro di chef d’équipe alcuni cavalieri sono venuti da me con i loro trainer: così io ho potuto parlare con loro, vedere il loro modo di lavorare e poi aggiungere a mia volta delle cose. Ovviamente con alcuni cavalieri ho rapporti più stretti e con altri meno, ma spero che nel tempo aumenti sempre di più il numero di persone che vengono a lavorare da me prima di un evento: in effetti l’abbiamo reso obbligatorio per i cavalieri che devono partecipare a gare di alto livello come una Coppa delle Nazioni. Io mi rifiuto di andare a un concorso di quel tipo senza conoscere perfino un solo binomio: non voglio correre alcun rischio, mi piace troppo vincere».

Il prossimo grande appuntamento agonistico è il Campionato del Mondo di Herning quest’estate: pensa che sia possibile per il Canada vincere una medaglia?

«Non solo una medaglia: direi la medaglia d’oro! Conquistare quella d’argento sarebbe una sconfitta. Io non penso al secondo posto o addirittura a non essere sul podio. Quando ero cavaliere sentivo il mio chef d’équipe dire che l’obiettivo da conquistare nel Campionato del Mondo era la qualificazione per le Olimpiadi: beh, io pensavo che come chef d’équipe ai miei cavalieri non avrei mai detto una cosa del genere, no… io avrei detto che l’obiettivo doveva essere quello di vincere la medaglia d’oro».

A proposito di grandi eventi, cosa pensa del ritorno dell’erba sul terreno di Piazza di Siena e del riassetto di tutta l’area circostante il campo di gara?

«Beh, stiamo parlando di uno dei più suggestivi concorsi del mondo, in nessun luogo esiste qualcosa come Piazza di Siena. Concorsi come quello di La Baule e di Roma sono stati rivitalizzati dalla sponsorizzazione di Rolex. Una volta a Piazza di Siena c’erano le tribune intorno al campo, e noi come cavalieri pensavamo che andasse bene così: in realtà nessuno si poteva rendere davvero conto di quanto stupendo fosse questo posto, cosa che invece è immediatamente percepibile in assenza delle tribune. Ed è bellissimo vedere il pubblico potersi sedere ovunque e sdraiarsi sull’erba… l’idea è quella di un totale relax, una sensazione che si percepisce chiaramente, e inoltre per i cavalli è meglio non avere troppa gente a ridosso del campo di gara».

Tornando al suo rapporto con l’insegnamento, quale consiglio si sentirebbe di dare a un cavaliere giovane oggi?

«Incontrare me! Io vengo dal nulla e ho avviato la mia impresa Torrey Pines dal niente quando avevo 19 anni, e oggi esiste ancora. Sono partito da una scuola di equitazione, sono diventato il numero uno del mondo e adesso guido la squadra nazionale… Non avevo mai sognato le Olimpiadi, non ero il tipo di ragazzino che guardava le gare di salto ostacoli, non era quello il mio ambiente. Ma in qualche modo il lavorare duramente mi ha portato in quella direzione… Mi ricordo che alle Olimpiadi di Pechino, dove ho vinto la medaglia d’oro individuale, nell’esatto momento in cui ho iniziato la prima falcata di galoppo mi sono sentito grande e vivo come mai prima… Oggi non si offrono più opportunità ai giovani: li si usa come allievi lavoratori, come groom cavalieri… è molto difficile. Non sono sicuro che sarei sopravvissuto in un mondo come quello di oggi, se avessi cominciato dieci anni fa probabilmente non ce l’avrei fatta. Questo è il motivo per cui il nostro obiettivo è quello di cercare veri talenti partendo dai pony club e dai piccoli concorsi nazionali. Tiffany Foster proviene da una situazione non certo di ricchezza ma ce l’ha fatta: ecco, io voglio aiutare persone così. Ovviamente c’è bisogno anche delle persone ricche, perché sono quelle che possono comperare i cavalli, ma non vorrei vedere ragazzi che smettono solo perché non hanno i mezzi economici per continuare: perché spesso quelli destinati a diventare campioni sono proprio loro».

Importante dunque trasferire la sua conoscenza e competenza ai ragazzi…

«È fondamentale restituire allo sport ciò che dallo sport si è ricevuto. Che senso avrebbe accumulare tutta questa esperienza se poi non la si offre al prossimo? Cosa facciamo, ce la portiamo nella tomba? Prima del Covid stavo preparando un film sulla mia vita, abbiamo lavorato a lungo per questo progetto. Nella mia vita ci sono stati alti e bassi, ma alla fine è arrivata la gloria sportiva: ognuno di noi può avere il suo momento nella vita. Io sono sempre stato il tipo di ragazzo destinato a rimanersene in basso e quindi costretto a scalare la montagna verso la vetta: e con la nostra squadra vogliamo fare lo stesso. Questa squadra avrà il potere di farmi cancellare gli ultimi cinque anni di malattia».

Lei da tempo fa parte della famiglia Rolex: che significato ha questa appartenenza?

«Durante un concorso a Ginevra… erano gli anni in cui stavo montando Hickstead, mi avvicina Rodrigo Pessoa per dirmi di Rolex. Allora io avevo alcuni sponsor che mi passavano qualcosa, una sella, dei finimenti… e io pensavo che fosse tutto favoloso. Ma l’incontro con Rolex mi ha letteralmente cambiato l’esistenza, mi ha portato a un altro livello. Diventare testimonial di Rolex è stato uno dei più grandi traguardi della mia vita, per un cavaliere è una cosa di prestigio assoluto… Rolex ha fatto tantissimo per me, e io molto poco per Rolex. Spesso ho pensato che noi cavalieri potremmo fare molto di più… perché fare parte della famiglia Rolex è qualcosa che porteremo per sempre dentro di noi».