Mambo: cavallo Argentino, castrone, pezzato

Si chiamava Mambo e viveva in uno stallino a fianco di una casa colonica, disabitata e spersa nella Bassa emiliana, vicino a Sorbara

©EPA/TATYANA ZENKOVICH

Bologna, 3 dicembre 2021 – Ogni tanto scrivo anche per me: per non dimenticarmi, per ricordare, perché ci sono piccole storie che per quanto semplici mi sembrano belle.

Come quella che riguarda Mambo, ad esempio.

Ero appena stata dalla parrucchiera.

E visto che parliamo degli anni ’80 sapete già quale poteva essere il risultato su una ragazzina di 16 anni come ero allora: un tripudio di lacca, con un ciuffo che Bon Jovi mi faceva un baffo.

Ma in quel nebbioso e freddo sabato pomeriggio di novembre ad aspettarmi fuori c’era il mio ragazzino di allora con una sorpresa magnifica: “Dai, vieni con me che ti porto a cavallo”.

A cavallo, il mio sogno, perché è da quando ho memoria di me stessa che penso ai cavalli.

Specie di animali fantastici e irraggiungibili che avevano popolato la mia infanzia grazie alle favole di mio padre e mia nonna e ai racconti di mio nonno, che era innamorato di loro quanto me e riviveva i suoi bei ricordi di gioventù parlando a me dei suoi.

E proprio quel pomeriggio lì, all’improvviso, i miei sogni erano diventati veri e li potevo toccare.

Impersonati, per l’occasione, dal cavallo Argentino da passeggiata del fratello del cognato del già sunnominato ragazzo.

Il cavallo si chiamava Mambo e viveva in uno stallino a fianco di una casa colonica, disabitata e spersa nella Bassa emiliana vicino a Sorbara.

Ho ancora stampata nella memoria la strada carraia che portava all’ingresso del cortile: si tuffava nella nebbia e l’unica cosa che emergeva da tutto quel grigio era lo stallino di Mambo, e chissà se era proprio così o se ero io che vedevo solo quello e il resto non mi importava.

Era tutto sprangato, porta e mezza porta: ma quando il fratello del cognato (di cui purtroppo come avrete capito non ricordo assolutamente il nome) è sceso e ha aperto lo sportello superiore è venuta fuori una testa bellissima.
Era bianca pezzata di sauro, e a me è sembrato che tutta la luce del mondo si riflettesse lì, proprio dove era quella testa.

Mentre pensavo confusamente che fosse bello avesse proprio lo stesso mantello dell’unico altro cavallo vivo con cui avessi avuto sino a quel momento un contatto un po’ significativo (per la cronaca: il pony che montai per un quarto d’ora a Fiuggi quando avevo 6 anni), Mambo era stato già sellato.

Sella americana ovviamente, come era quasi di prammatica per quel genere di situazione.

Ma anche se nei miei sogni i cavalli avevano tutti la sella inglese non sono stata a sottilizzare, ho infilato il piede nella staffa e sono montata badando a usare la dovuta delicatezza.

Che la teoria me la stavo studiando da anni, era la pratica che mi mancava orribilmente. Comunque il fratello del cognato a quel punto diede una bella pacca sulla groppa di Mambo, mi disse «Non lasciargli mangiare l’erba» e mi indicò dove si poteva passare per raggiungere l’argine del Secchia.

Così ho fatto una carezza sul collo di Mambo, l’ho girato dalla parte giusta e siamo partiti.

Francamente non è che ricordi come ho girato, o come ho dato gambe: magari non l’ho nemmeno fatto e Mambo ha semplicemente svolto il compito al posto mio.

Però ricordo ancora benissimo tutto quello che sentivo mentre lui camminava.

La meraviglia di esser così vicina a un cavallo che potevo accarezzare solo allungando una mano, la bellezza di sentire il suo passo sotto di me che era così facile assecondare.

E la gioia esplosiva che veniva fuori da una assolutamente irragionevole sensazione di controllo.

Che in realtà ero in balia di un cavallo senza nessunissima possibilità di interferire con uno qualsiasi dei suoi desideri, ma evidentemente non me ne rendevo conto.

Perché quello, come il 99% dei cavalli che venivano dall’Argentina, era un San Cavallo che sapeva benissimo quale fosse il suo mestiere.

Cioè portare in giro degli incompetenti come me non solo senza causare loro danni, ma anche facendoli divertire.

Così camminavo con lui nella nebbia, soffice e amica, come se fossimo in un sogno.

Facemmo una lunga passeggiata sull’argine, con quel tempo umido e freddo non c’era nessuno così scriteriato da andarsene a spasso.

E la solitudine aumentava il mio piacere di scoprire quanto fosse meraviglioso fare qualcosa con un cavallo.

Mambo aveva provato praticamente subito ad abbassare la testa per brucare un po’ dell’erba secca e morbida che calpestavamo.

Ma ligia all’indicazione ricevuta (l’unica tra l’altro, quindi non è che potessi fare una gran confusione con le istruzioni operative) lo avevo tirato su. Dopo un paio di altri tentativi sempre più deboli si era messo l’anima in pace dal lato gastronomico e camminava tranquillo e regolare.

E io ad ogni passo mi sentivo più a casa, e più felice, e più sicura di essere nel posto giusto per me: sopra un cavallo insomma, finalmente.

Mi ricordai però improvvisamente che, a quell’ora del pomeriggio che stava diventando quasi sera, il posto in cui avrei dovuto stare in realtà era casa mia.

Presa dall’entusiasmo avevo clamorosamente dimenticato di avvertire mia madre che non sarei ritornata subito dopo il parrucchiere.

Panico, tragedia e confusione.

Ritornai immediatamente verso la base, senza rendermi conto della fortuna di avere un cavallo che, seppur montato da una principiante ad un livello scandalosamente basso di consapevolezza (o forse proprio per questo, chissà) non affrettava minimamente una volta girato e diretto verso la scuderia.

Smontai di sella, accarezzai Mambo con tutti i sacrosanti sentimenti di gratitudine che potete immaginare e misi le redini nelle mani del fratello del cognato dell’eccetera che – pur nell’improbabile caso leggesse queste righe – colgo l’occasione di ringraziare ancora una volta.

Non li ho mai più rivisti, né lui né Mambo.

Poi mi feci accompagnare a tutta birra verso casa, perché ai tempi non c’era il cellulare e comunque attraverso la cornetta di una cabina telefonica non avrei avuto il coraggio necessario ad affrontare i ruggiti di mia madre, che sapevo sicuramente e mostruosamente preoccupata dal mio ritardo.

Preferivo arrivare a casa nel più breve tempo possibile, e poi che fosse di me quel che il Cielo voleva.

Arrivammo a casa, per fortuna il ragazzo con quel preziosissimo fratello del cognato era anche motorizzato: mia madre era sulla porta ad aspettarmi.

Non so se fosse lì da ore o se avesse riconosciuto la macchina ma comunque era lì; e ruggiva cribbio, altroché se ruggiva.

Tra una minaccia e l’altra però le scappò anche un “Ma cosa hai fatto ai capelli, non eri andata dal parrucchiere…e che razza di odore hai addosso?!?”.

Mi immaginai come dovevo essere conciata.

Col ciuffo alla Bon Jovy ammosciato dalla nebbia, i jeans che sapevano di cavallo dove avevano toccato Mambo sui fianchi, e le mani che sapevano molto di cavallo e non avevo nemmeno fatto in tempo a lavarmele.

Perché sì, finalmente io ero davvero stata a cavallo: e allora nonostante i ruggiti materni mi sono sentita sorridere di felicità.

La messa in piega era perduta, a mia mamma prima o poi sarebbe passata la rabbia: ma io ormai avevo avuto Mambo, e niente e nessuno mi avrebbe mai più tolto i cavalli.