Cavalli e rock, insieme per raccontare

La musica di matrice soprattutto nordamericana è piena di riferimenti molto espliciti al cavallo: il motivo c’è…

La copertina del disco che Stephen Stills ha pubblicato nel 1978, Thoroughfare Gap

Bologna, domenica 17 maggio 2020 – Se ci si mettesse con pazienza a fare una ricerca statistica si scoprirebbe che i riferimenti al cavallo nella musica rock abbondano in misura quasi impressionante. La ragione di ciò è meno poetica di quanto si potrebbe supporre. Sì, è vero, l’idea di cavallo è molto facilmente associabile a ciò che si cerca di rappresentare tramite l’espressione artistica in musica (ma anche pittura, scultura… ), ma questo è forse solo il motivo secondario. Il motivo primario sta in una questione molto più concretamente realistica: cioè vita vissuta. Attenzione: quale è la zona del mondo regina nella produzione della musica rock? L’America, senza dubbio. Anzi, più precisamente gli Stati Uniti. E qual è l’elemento che forse più fra tutti può essere considerato fondante per la vita degli Stati Uniti? Il cavallo, per l’appunto. Il cavallo è l’immagine degli Stati Uniti forse più di quanto lo siano altri simboli altrettanto eloquenti. Tutta l’epopea della frontiera è stata vissuta da uomo e cavallo fianco a fianco: soggetti inseparabili e inscindibili, tanto da divenire tali perfino agli occhi di chi osserva da oltre oceano. E’ vero: anche alcune zone dell’Asia e del mondo arabo hanno avuto nel cavallo un elemento determinante per la vita della loro società, ma senza farne un simbolo, un marchio, un’icona. Provate a chiedere a chiunque quale sia la prima immagine che viene in mente al pensiero di un uomo e un cavallo: novanta su cento la risposta sarà cow-boy, non certo beduino del deserto o pastore della Mongolia…

Il cavallo è dentro la vita degli Stati Uniti, e dunque chi vive negli Stati Uniti ha il cavallo dentro di sé anche senza accorgersene: è nelle cose. Centinaia di migliaia di americani sono nati, vissuti e soprattutto morti seguendo un ideale: il viaggio, lo spostamento, il raggiungimento fisico di un luogo. Gli americani hanno sempre avuto davanti a loro un ‘oltre’, fin da quando partendo dall’Europa senza nemmeno sapere di essere ciò che un giorno sarebbero diventati – americani appunto – hanno trovato il loro ‘oltre’ al di là di un oceano sconosciuto ai più. Per poi iniziare uno spostamento che da est verso ovest ha macinato migliaia e migliaia di chilometri attraverso praterie, deserti, catene montuose, fiumi, laghi determinando una gigantesca storia di vita vissuta: e vissuta sempre sopra, di fianco o dietro a un cavallo.

Una vita vissuta che ha prodotto soprattutto mentalità, ma anche una quantità impressionante di letteratura, film, cultura in senso lato. E naturalmente musica. L’immagine di un gruppo di uomini seduti a terra intorno a un fuoco di notte davanti a un piatto di fagioli con i cavalli radunati poco più dietro, a noi europei forse fa tanto fumetto di Tex Willer o film di Sergio Leone: ma non è un’immagine costruita, è un’immagine ‘vera’, per quanto oggi divenuta quasi uno stereotipo. E quando quegli uomini intorno a quel fuoco si volevano rallegrare un po’ cosa facevano? Tiravano fuori una rudimentale chitarra o un banjo e un’armonica a bocca e cantavano suonando insieme. Questa è la fonte della musica country che, insieme al blues, compone il nucleo padre/madre (o madre/padre che dir si voglia) che ha messo al mondo il rock. E la poetica del rock è piena del concetto di viaggio: canzoni che parlano di treni, di macchine, di città a cui arrivare e dalle quali partire. E soprattutto canzoni che parlano di cavalli. Ecco perché chi fa musica negli Stati Uniti utilizza i cavalli non solo in modo diretto ed esplicito, ma anche come metafora per comunicare e raccontare qualcosa, per trasferire un messaggio.

Non accade lo stesso nel rock di produzione europea, per esempio, o quanto meno non in dosi così massicce: e chi tra i musicisti europei parla di cavalli lo fa dopo essersi ‘americanizzato’ a sufficienza per aver assorbito gli stili di linguaggio e di espressione statunitensi. Un esempio un po’ semplicistico lo si potrebbe fare parlando delle due più famose band inglesi del mondo, i Beatles e i Rolling Stones. I primi sono sempre stati e per sempre rimarranno un gruppo di matrice europea – meglio: inglese – anche dopo aver raggiunto il successo mondiale. Gli Stones, invece, nascono per amore del blues, che è musica assolutamente americana (anzi, il blues è il sangue che scorre nelle vene della musica americana anche quando non lo si vede: è lui che mette in circolazione l’ossigeno che dona e mantiene la vita… ). Non è un caso dunque che tra i titoli delle canzoni più importanti dei Beatles non compaia mai la parola cavallo (George Harrison pubblicherà “Dark Horse” nel 1974, quando i Beatles ormai sono già un ricordo), mentre invece nella produzione degli Stones (‘americani’ non solo per la matrice blues iniziale, ma anche perché il loro successo planetario è esploso negli Stati Uniti) c’è una perla come “Wild Horses” (Cavalli Selvaggi). A proposito della quale Keith Richards, leader del gruppo insieme a Mick Jagger, scrive nella sua autobiografia “Life”: «Fu uno di quei momenti magici in cui tutto si incastra. Come per Satisfaction. La senti in sogno, e d’un tratto ce l’hai tra le mani. Voglio dire, se hai in mente l’immagine dei cavalli selvaggi – i wild horses del titolo – quale sarà il verso successivo? Couldn’t drag me away, non riusciranno a trascinarmi via. Ecco una delle cose eccezionali dello scrivere canzoni; non è un’esperienza intellettuale. Qua e là ti toccherà usare il cervello, ma per lo più si tratta di fissare degli istanti».

Esiste poi chi al cavallo è ricorso in modo molto più evidente e conclamato: il disco più importante firmato da Patti Smith (la cosiddetta poetessa o sacerdotessa del rock, secondo le consuetudini del genere), nonché uno dei capolavori immortali della musica contemporanea rock o non rock, si intitola semplicemente “Horses”. E la band di supporto di Neil Young (canadese) si chiama Crazy Horse: uno dei loro dischi insieme (dal vivo) si intitola “The Year of the Horse” (1997), L’Anno del Cavallo, e il regista Jim Jarmusch girerà un documentario dei concerti di quel tour facendone un film che porterà lo stesso titolo. Stephen Stills, compagno di Young in meravigliose avventure musicali (Buffalo Springfield, CSN&Y, Stills-Young Band) non ha scritto molto di cavalli, ma ha fatto quasi di più, con due copertine di suoi dischi che lo ritraggono in sella: il primo album solista dal titolo “Stephen Stills” lo vede a cavallo nella fotografia del retrocopertina, mentre “Thoroughfare Gap” è ancora più esplicito nel raffigurarlo sulla front-cover in sella a un purosangue (forse) in pista lanciato a pieno galoppo.

Ma probabilmente il più famoso fra tutti quelli che hanno caratterizzato il titolo di una canzone è il cavallo senza nome: “Horse With no Name” degli America è una meravigliosa ballata musicalmente semplice e cristallina dal testo visionario e ricco di immagini suggestive, nel quale si raccontano in metafora le difficoltà di una vita dura e difficile affrontata insieme a un cavallo (senza nome). Ma questi sono solo alcuni esempi tra i tantissimi che si potrebbero elencare (il gruppo Band of Horses, i cavalli di proprietà di Sheryl Crow, la meravigliosa “Horses Through a Rainstorm” della leggendaria Joni Mitchell, l’incalzante “Black Horse and the Cherry Tree” di KT Tunstall, lei però europea… ), e tra l’altro tutti legati a personaggi che hanno scritto pagine indelebili nella storia della musica.

C’è invece un disco piuttosto sconosciuto al grosso pubblico uscito nel 1978 nel quale si trova un vero e proprio piccolo commovente capolavoro che ha per protagonisti due cavalli. L’album in questione dal titolo “White Mansion” è stato concepito e scritto da Paul Kennerley, inglese (!) innamorato della musica country americana (per un breve periodo sarà anche il marito di Emmylou Harris, forse la più nota e affascinante ‘testimonial’ del country Usa) che mette insieme un cast stellare per dare vita a un concept-album nel quale si racconta in musica il periodo della guerra civile americana tra il 1861 e il 1865. Ecco dunque Waylon Jennings e sua moglie Jessi Colter, Bernie Leadon (fondatore degli Eagles), ma soprattutto uno dei più grandi – se non il più grande – chitarrista/solista della storia della musica, Eric Clapton (altro esempio di europeo totalmente assorbito dalla cultura musicale americana). Tra le canzoni del disco ce n’è una dal titolo “The Union Mare & the Confederate Grey”: lei è una cavalla dell’esercito dell’Unione (quindi nord), lui è un cavallo (grigio) dell’esercito confederato (quindi sud). Il testo andrebbe letto in inglese, per apprezzare la metrica e la ritmica (meglio di tutto: bisognerebbe ascoltare la canzone… ), ma in ogni caso la traduzione è la seguente: “Due cavalli stavano trottando, correndo e sgroppando, ciascuno montato da un soldato di cavalleria / Due cavalli se ne stanno a pascolare dove i loro cavalieri giacciono a terra ormai senza vita / la femmina dell’Unione, il grigio della Confederazione / Si annusano l’un l’altra, si stuzzicano strofinando i musi e provando finalmente piacere / immergendosi nei caldi raggi del vecchio sole del Sud / Per loro più nessun ordine senza senso cui dover obbedire / quindi si comportano come veri amanti, la femmina e il grigio / Stiamo vivendo in tempi davvero tristi / nei quali uccidere tuo fratello è il più potente dei peccati / Quanto più felici saremmo / se potessimo essere come la cavalla dell’Unione e il grigio della Confederazione”. Poche, semplici immagini che però raccontano in modo eloquente un dramma e una catastrofe sconvolgenti: i cavalli, quei due cavalli, nella loro purezza di spirito e nel candore dei loro sentimenti sembrano indicare la giusta via da percorrere come meglio non si sarebbe potuto fare. Cavalli e musica per raccontare la storia degli uomini. Cavalli e musica: un binomio perfetto.