Lucio Manzin, il bambino che sognava i cavalli

Storia di uno dei grandi protagonisti dello sport equestre italiano sia come atleta sia come tecnico, oltre che magnifico simbolo di libertà e passione con l’uniforme dell’arma di cavalleria

Lucio Manzin in veste di commissario tecnico azzurro per la specialità del completo e - a destra - in gara in Piazza di Siena nel 1940 in sella a Valoroso

Bologna, venerdì 15 marzo 2024 I cavalli hanno il potere di cambiare la vita delle persone. Lo sappiamo, lo abbiamo sempre saputo. Ma nonostante ciò talvolta proprio non ci si può non sorprendere nello scoprire ‘quanto’ la vita di una persona possa cambiare grazie ai cavalli.

Lucio Manzin, per esempio. Un bambino. Un bambino che ha un amichetto. Il nonno dell’amichetto possiede alcuni cavalli da lavoro agricolo, a Parenzo, in Istria. Lucio e il suo amico hanno dodici anni. Insieme imparano ad arrampicarsi sulla schiena di questi cavalli. Lucio fino a quel momento i cavalli non li aveva mai visti: a lui piacevano il mare e le cose che si fanno al mare e sul mare. Ma il momento in cui si mette a cavalcioni sulle schiene poderose dei cavalli del nonno del suo amico è per lui quello di una rivelazione improvvisa e quasi magica: Lucio sente che quello e solo quello è il luogo dove lui vuole stare.

Ma non è semplice: i suoi genitori non sono contadini, non sono ricchi, non possono permettersi di comperare nemmeno un cavallo, non possono permettere a Lucio di praticare l’equitazione. Come fare? C’è una sola via: l’esercito. Lucio Manzin inizia la carriera militare solo ed esclusivamente per poter montare a cavallo. Lui non è interessato alle armi e alle uniformi e alle caserme e alla disciplina: lui vuole i cavalli. Solo questo: i cavalli. Così appena diciassettenne frequenta l’Accademia Militare di Modena, poi dopo due anni è nominato sottotenente in servizio permanente effettivo nell’arma di cavalleria, viene mandato alla Scuola di Applicazione di Pinerolo, frequenta contemporaneamente il corso di equitazione di campagna a Tor di Quinto, poi raggiunge il reggimento Piemonte Reale dove compie il periodo di comando da subalterno, infine viene richiamato a Pinerolo per la frequenza del corso sottoistruttori.

Ma fino a qui in questo racconto manca un dettaglio fondamentale: gli anni. Il periodo. Lucio Manzin è nato il 21 agosto del 1913: frequenta l’Accademia a Modena dal 1931 al 1933… avrebbe mai potuto pensare di trovarsi coinvolto da militare con una divisa e delle armi addosso durante quel terrificante cataclisma che siamo abituati a identificare con il nome di seconda guerra mondiale? Sono proprio i cavalli che lo portano fin là, sono proprio i cavalli che lo fanno diventare un eroe…

Sì, eroe, in senso letterale. Perché nel frattempo il bambino Lucio è diventato un uomo dal fisico possente e dal coraggio puro e trasparente: i suoi genitori gli hanno trasmesso l’insegnamento di valori semplici e inequivocabili come onestà, altruismo, spirito di sacrificio. Poche regole: ma chiare e indiscutibili. La vita militare fa il resto, senza però plagiare la sua libertà di pensiero e di sentimenti. E così dopo l’8 settembre 1943, dopo aver condotto le operazioni belliche sui Balcani, Lucio Manzin con il nome di Abba (Silvano Abba, nato a Rovigno nel 1911, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di pentathlon 1936 a Berlino, morto nell’agosto del 1942 durante la famosa carica del reggimento Savoia Cavalleria guidata da Alessandro Bettoni a Isbuscenskij) e sua moglie Bruna Colautti prendono parte alla lotta partigiana con la Brigata Osoppo: lui guida il battaglione Italia, ma poco dopo diventa comandante di tutte le formazioni partigiane fino al termine delle ostilità.

Probabilmente è per questa ragione che Manzin – per ideali e convincimenti personali molto vicino al Partito d’Azione – è stato poi sempre considerato dagli ambienti più conservatori dell’esercito come uomo ‘di sinistra’ e quindi guardato dai vertici se non proprio con sospetto almeno con circospezione. È un comandante-soldato, Lucio Manzin, sempre in prima linea, sempre disponibile a fare in prima persona quello che ad altri pare impossibile: la sua potente forza fisica e la sua serenità calma sono armi infinitamente più efficaci di fucili e cannoni. Finita la guerra Lucio Manzin riceve la medaglia d’argento al valor militare, la Bronze Star (onorificenza del comando alleato) e la promozione di grado: il tutto in esplicito riconoscimento dei suoi atti di valore e di eroismo. Ma lui non voleva diventare un eroe: lui voleva soltanto stare con i cavalli, senza sapere che i cavalli possono davvero cambiare la vita delle persone.

Già, i cavalli. Manzin con i cavalli ci sta, eccome. Dal 1947 al 1954 in qualità di cavaliere e istruttore è al Cepim (il centro di preparazione militare), chiamato dal colonnello Gerardo Conforti, suo vecchio istruttore a Modena: sono anni di grande sport, con partecipazione ai concorsi ippici internazionali di Lucerna, Aquisgrana, Londra, Roma (ma a Piazza di Siena Manzin aveva esordito già prima della guerra, nel 1939), Il Cairo, Dublino… e quindi Gran Premi, Coppe delle Nazioni, potenze, al fianco di compagni che si chiamano Piero d’Inzeo, Alessandro Azais, Mario Garofoli, Luciano Ambrosio.

Poi le Olimpiadi di Helsinki 1952, ma in completo: in sella a Golden Mount e insieme a Piero d’Inzeo, Salvatore Oppes e Sandro Azais agli ordini di Dino Ferruzzi. Quell’Olimpiade inizia benissimo (Italia al primo posto dopo la prima prova, Manzin 3° individuale) ma finisce male: con l’eliminazione della squadra. Però il completo rimarrà ‘addosso’ a Manzin per il resto della sua vita, tanto da identificarlo in tutto e per tutto con questa disciplina.

Nel 1959 il presidente della Fise Francesco Formigli affida la conduzione della squadra di completo in vista delle Olimpiadi di Roma ’60 a un terzetto formato dai colonnelli Ferruzzi e Chiantia e dall’ormai tenente colonnello Lucio Manzin: ma ben presto proprio Manzin rimarrà l’unico responsabile tecnico. La rappresentativa azzurra formata da Alessandro Argenton, Ludovico Nava, Giovanni Grignolo e Lucio Tasca chiude l’Olimpiade al quinto posto su diciannove squadre. Il risultato è buono, ma Manzin viene comunque sostituito da Fabio Mangilli: e inizia qui un’alternanza che ha visto questi due formidabili uomini di cavalli guidare il completo azzurro fino al 1984.

Nel 1970 Manzin lascia il servizio militare attivo, nel 1971 conquista la medaglia di bronzo con gli azzurrini juniores nel Campionato d’Europa loro riservato, poi torna alla guida della squadra azzurra di completo in vista di Monaco 1972, dove l’Italia si classifica all’ottavo posto (con Alessandro Argenton, Dino Costantini, Mario Turner e Stefano Angioni) e Argenton medaglia d’argento individuale (dirà di lui Manzin: «Sandro è un cavaliere eccezionale, grandissimo, quello che ha inventato Caprilli lui lo ha sempre avuto dentro naturalmente, vederlo galoppare in cross è un piacere sublime. Ha un solo difetto: non gli piace lavorare in rettangolo. Dovevo sempre raccomandargli di non avere fretta, perché lui entrava, salutava la giuria e poi iniziava a lavorare come se non vedesse l’ora di andarsene da lì»).

Alle Olimpiadi di Montreal 1976 Manzin schiera una squadra che per un soffio perde la medaglia di bronzo classificandosi al quarto posto: Federico Roman, Mario Turner, Alessandro Argenton, Giovanni Bossi. Poi arriva Mosca 1980, con il boicottaggio da parte del mondo occidentale per protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan: la Fise decide di non partecipare ma il quartetto azzurro di completo, in accordo con il Coni, affronta ugualmente la spedizione in forma ‘privata’, senza alcun accompagnatore; Lucio Manzin lascia i suoi ragazzi all’aeroporto di Roma per rivederli poi dopo la conquista dell’oro individuale da parte di Federico Roman su Rossinan e dell’argento di squadra con Mauro Roman, Anna Casagrande e Marina Sciocchetti.

Dopo l’Olimpiade di Mosca la Fise decide di cambiare nuovamente: e riaffida il completo azzurro a Fabio Mangilli. Manzin non ha alcun timore nell’esternare la sua amarezza: «Evidentemente la Fise non ha considerato positivi i risultati che abbiamo ottenuto nelle ultime tre Olimpiadi: cosa che per me è motivo di grande delusione».

Il generale Lucio Manzin muore a casa sua, a Moruzzo, nei pressi di Udine, il 7 agosto 1988, vittima del cancro: un male vigliacco e oltraggioso, oltre che letale, perché riduce quel corpo possente e massiccio a un insieme di pelle e ossa. Il corpo è offeso, sì, ma non la mente: Manzin rimane sereno e presente, calmo e forte fino alla fine. Pochi giorni prima di andarsene per sempre, riferendosi alla preparazione per le Olimpiadi di Seul, ha chiesto: «Come stanno andando i nostri cavalli?».

Ecco, appunto: i cavalli. Quelli che cambiano la vita delle persone, quelli che hanno cambiato la vita di un bambino di nome Lucio Manzin, un bambino che amava il mare ma che dopo essersi messo a cavalcioni della schiena di un cavallo da lì non è mai più smontato.