Sull’altopiano della regione centrale dell’Isola del Nord della Neozelanda, tra distese di erica, steppe d’oro e colline scolpite dal vento, vive una mandria senza padroni da oltre un secolo: i cavalli Kaimanawa. Sono gli ultimi cavalli selvatici della Nuova Zelanda, una presenza tanto suggestiva quanto complessa, nati dall’incrocio tra pony robusti dei pionieri europei, cavalli militari e arabi portati nell’Ottocento per sostenere la conquista e l’esplorazione delle vaste terre interne. Fuggiti o rilasciati, hanno trovato nel Massiccio dei Kaimanawa un territorio molto duro, e lo hanno fatto proprio, adattandosi a un clima estremo e a una vegetazione unica al mondo.
Per decenni sono rimasti quasi invisibili agli occhi della politica e dell’opinione pubblica, uno di quei fenomeni laterali che diventano mito locale. Poi, verso gli anni Settanta, gli scienziati iniziarono a studiare quell’ecosistema fragile, scoprendo che l’aumento della popolazione equina minacciava alcune piante endemiche rarissime, come la Libertia peregrinans, sopravvissuta a millenni di isolamento geografico. Il dilemma era chiaro: proteggere i cavalli, simbolo di identità culturale, o salvaguardare la biodiversità? Nel 1981 lo Stato li riconobbe come patrimonio storico vivente, ma la ricerca biologica impose un secondo passo: trovare un equilibrio. Non un’epopea romantica, ma una gestione responsabile.
Oggi il programma di tutela e contenimento è un modello internazionale. Ogni due anni il Department of Conservation, insieme alla Kaimanawa Heritage Horses, monitora la popolazione con censimenti aerei e controlli genetici, stabilendo un numero sostenibile: circa 300 esemplari. Se la mandria supera la soglia, inizia un’operazione che non assomiglia né a un raduno western né a una cattura drammatica. È una procedura silenziosa, programmata, seguita da veterinari, ranger ed esperti con decenni di esperienza. Solo gli animali selezionati vengono radunati e portati in sicurezza. E qui emerge la parte più sorprendente: ogni cavallo, dall’anno successivo al suo arrivo nei centri di raccolta, deve avere una destinazione. Nessuna asta pubblica, nessuna esportazione. Solo adozioni verificate, formazione, affiancamento e affidamento a persone e associazioni capaci di accompagnare un cavallo selvatico verso una vita domestica.
Molti finiscono nelle mani di addestratori che lavorano a lungo sulla fiducia, progressione e rispetto. I Kaimanawa non sono cavalli “difficili”: sono cavalli con memoria, indipendenza, un istinto affinato dall’assenza dell’uomo. C’è chi racconta di giornate passate semplicemente a stare nella stessa area, senza chiedere nulla, aspettando che il primo sguardo curioso sostituisca la distanza. Ci sono cavalli che hanno trovato posto nel trekking, nell’endurance, nel lavoro in libertà, nelle scuole di equitazione naturale. Alcuni sono diventati ambasciatori della razza, mostrando come la capacità di adattamento equina superi confini culturali e geografici.
La Nuova Zelanda ha scelto di non idealizzare la natura. Proteggere significa anche decidere. Significa riconoscere che in un’isola, dove le specie introdotte possono alterare equilibri millenari, la libertà assoluta non è sempre compatibile con la conservazione. È un confronto che molti Paesi con cavalli selvatici devono affrontare, dall’Australia agli Stati Uniti. La differenza, qui, sta nella trasparenza e nel coinvolgimento pubblico: ogni dato è pubblico, ogni operazione è documentata, ogni cavallo adottato ha una storia tracciabile. Ci sono alcune organizzazioni come la Kaimanawa Heritage Horses Welfare Society (KHH) o la Kaimanawa Legacy Foundation (KLF) o, ancora, he Wild Horse Project che lavorano costantemente per cercare una casa sicura ai soggetti selezionati ogni anno tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, in base alle condizioni metereologiche. Per scoprire di più sulle modalità di adozione è possibile visitare il sito https://kaimanawaheritagehorses.org/.
Nel vento che attraversa i pendii dei Kaimanawa Ranges c’è una lezione che arriva da lontano ma parla anche a chi vive il cavallo ogni giorno in Europa. Non è la celebrazione ingenua del “selvatico”, né la resa all’idea che la gestione sia una sconfitta. È la consapevolezza che tra cavallo e uomo esiste un filo antico, che può assumere forme diverse: libertà, convivenza, collaborazione. Qui quel filo non viene tirato, ma sorvegliato. Ogni cavallo lasciato libero di correre tra l’erica o condotto con pazienza in un paddock rappresenta una scelta: rispettare ciò che la natura ha modellato e ciò che l’uomo ha costruito, senza perdere di vista l’una o l’altro.
Così i Kaimanawa continuano a vivere, tra le ombre dei vulcani e le prime nebbie d’autunno, simboli di una relazione complessa ma sincera. Non sono leggende, non sono favole: sono cavalli veri, con sabbia vulcanica negli zoccoli e vento negli occhi. E ricordano che il rapporto tra uomo e cavallo, quando è autentico, non si esprime solo nel cavalcare, ma nel capire quando accompagnare e quando osservare da lontano.
























