Camargue Delta, chi sono i cavalli di Valle Lepri

Se ne è parlato tanto nei giorni scorsi, dopo che uno dei Camargue Delta abbandonati vicino ad Ostellato è morto: ma chi sono questi cavalli che vengono da un altro delta, quello del Rodano? ve lo raccontiamo qui, anche con una sorpresa video

Ferrara, 11 novembre 2018 –  Uno dei tratti comuni ai più diversi tipi equini è  la loro adattabilità alla volontà dell’uomo: i cavalli sono capaci di diventare quello che vogliamo, basta avere il tempo e un obiettivo preciso da raggiungere.

Ma ce n’è uno tra tutti che va contro corrente e  che ha resistito pervicacemente a quanto l’uomo ha provato a fare per cambiarlo.

Uno che è sempre riuscito a rimanere quello che era, esattamente come lo aveva forgiato l’ambiente naturale che gli ha fatto da culla: e questo piccolo, testardo miracolo è il cavallo della Camargue, quel pezzo di Francia che il delta del Rodano abbraccia prima di buttarsi in mare, a sud di Arles.

Già il fatto che non esistano dati  precisi sulle sue origini è significativo: Giulio Cesare aveva  impiantato due grandi allevamenti proprio in questa zona dopo la conquista dell’Africa del Nord, dove venivano utilizzati i cavalli Numidi come riproduttori.

Ma è più probabile  siano stati i cavalli berberi portati dai Saraceni a lasciare la loro impronta: non per niente il gene dell’ingrigimento, responsabile del mantello candido dei soggetti adulti, è arrivato in Europa proprio grazie ai cavalli orientali e nord-africani.

Di certo la foce del Rodano era popolata da branchi di cavalli sin dal Neolitico, più o meno 9000 anni fa e a pochi chilometri da Arles è stato ritrovato uno scheletro di cavallo circondato da lame in selce, dalle misure compatibili con quelle del Camargue di oggi. Ma chiunque sia stato a lasciare il proprio sangue in questi piccoli, resistentissimi cavalli ha ottenuto un successo genetico più unico che raro nel panorama europeo: chiusi per secoli tra gli stagni della Provenza, protetti dal fluire della storia da un ambiente ostile e poco favorevole alle attività umane hanno consolidato i caratteri che lì risultavano vincenti grazie all’isolamento genetico, costantemente temprati dalla durezza del clima e dalla povertà dei pascoli a loro disposizione. Il tutto lontanissimi dalle cure dell’uomo, che tradizionalmente si occupava di quei piccoli cavalli selvatici solo per prelevare quelli necessari ai lavori agricoli (come la trebbiatura) o come monte per i gardians, i custodi delle mandrie di tori neri che da sempre ne condividono stagni e pasture.

E’ stato proprio questa lunga storia a metà tra vita libera e domesticazione a costruire l’eccezionalità del Camargue: perché le due selezioni operanti in parallelo hanno esasperato le virtù di resistenza e sobrietà necessarie non solo a sopravvivere, ma anche a lavorare duro potendo contare solo su magri pascoli salmastri per nutrirsi. Il risultato di questa lunga operazione di vaglio è stato un cavallo di piccola taglia, estremamente frugale e robusto: testa piccola e dal profilo diritto, con occhi vivi ed espressivi e crini folti, spessi e ruvidi.

Un piccolotto rustico ma preziosissimo per  i gardians e che, con la sua tempra eccezionale, faceva gola anche a chi voleva usarlo per la rimonta dell’esercito: ma ogni tentativo di «miglioramento» (leggi: renderlo più alto al garrese e fine di modello, quindi più adatto agli usi militari) finiva invariabilmente per fallire miseramente.

Perché il miglioramento delle mandrie si doveva ottenere inserendo uno stallone della razza miglioratrice nelle manades di fattrici Camargue: ma gli stalloni arabi e spagnoli deperivano in quei pascoli spartani, e i loro puledri non sopravvivevano a condizioni ambientali proibitive per chiunque non fosse un Camargue puro. C’è una leggenda che dice i Camargue siano discendenti da un mitico stallone nato dalla schiuma del mare per salvare un uomo, inseguito da un toro sin sulla spiaggia di Santes-Maries-de-la-Mer.

Il grigio figlio del mare si lasciò domare, ma disse all’uomo che non sarebbe mai stato il suo schiavo, bensì un suo amico.

Un amico fatto di mistral, sale e coraggio, e il più generoso di tutti: perché la libertà che ci regala, lui, l’ha sempre pagata cara.

I gardians – Nati come Confraternita nel 1512, i gardians per secoli hanno curato le mandrie di tori allevate in queste terre e un mestiere del genere non potevi farlo senza cavallo. Un cavallo come il loro grigio, ovviamente: frugale come nessuno ma allo stesso tempo volenteroso e instancabile, capace di sonnecchiare tranquillo nelle pause del lavoro ma sempre pronto a rispondere alle richieste del cavaliere in modo brillante e pieno di fuoco. Nei primi anni del 1900 una piccola rivoluzione agricola cominciò a insidiare il regno naturale di gardians e cavalli Camargue: il recupero di terreni una volta salmastri, l’irrigazione con le acque dolci del Rodano e la diffusione delle coltivazioni vitivinicole toglievano spazio all’allevamento dei bovini e dei cavalli. Solo la passione e l’amore per le tradizioni di gente come il marchese Folco de Baroncelli-Javon (1869-1943, discendente di una antica famiglia toscana trapiantata in Provenza da cinquecento anni) permise di salvaguardare la storia dei gardians, che pur vedendo diminuire la loro effettiva importanza nell’economia rurale venivano riconosciuti come veri e propri guardiani delle tradizioni e dell’orgoglio locali. L’opera di valorizzazione di Baroncelli sopravvisse a lui stesso, e permise a cavalli e Camargue di arrivare  (seppur faticosamente) agli anni cinquanta del secolo scorso, uno dei periodi più neri per il mondo equino a tutte le latitudini: e quello che salvò cavalli, manades e gardians fu un film, tratto da un romanzo per ragazzi. Era la storia di un ragazzino di nome Folco e di uno stallone Camargue, Crin-Blanc, accomunati dallo stesso carattere indomabile e dall’amore per la loro libertà. Il grande successo del film, praticamente un documentario naturalistico di ottima fattura, ricordò prepotentemente ai francesi che possedevano questo splendido pezzo di natura quasi incontaminata, lì alla periferia della République e i cavalli grigi, liberi di galoppare negli stagni tra spruzzi d’acqua e flamingos rosa scatenarono l’entusiasmo dei francesi per la regione e le sue tradizioni, facendone conoscere le bellezze naturali anche a chi fino ad allora si era sempre tenuto lontano dalle sue paludi. Da allora la fortuna della Camargue (cavalli compresi) è stata fatta: e se un po’ del folclore locale ha perso di genuinità, come è inevitabile che accada quando arriva l’industria del turismo, non si può dire che corra lo stesso rischio questo piccolo ma formidabile cavallino grigio. Che continuerà ad essere sempre uguale a se stesso finché rimarrà lì, dove è nato, così vicino alle onde del mare.

Un altro Delta, un altro mare – La determinante influenza della zona di origine sui cavalli della Camargue ha avuto la sua prova del nove quando un gruppo di appassionati ferraresi, una trentina di anni fa, ha importato direttamente dalla Francia al Delta del Po un primo nucleo di riproduttori selezionati a cui ben presto ne seguirono altri. Gualtiero Mazzoni e altri appassionati della razza  portarono stalloni e fattrici in una tenuta vicina alla spiaggia Romea, al centro del parco del Delta, in un paesaggio molto simile a quello della Camargue ma meno duro, più ricco di erbe sostanziose. Condizioni ambientali meno estreme, alimentazione curata e gestione quotidiana dei cavalli hanno reso possibile quello che nel Delta del Rodano non erano riusciti a fare i migliori stalloni degli haras francesi: i naturalizzati emiliani in pochissime generazioni sono diventati più alti e gentili di forme dei loro nonni, pur discendendo direttamente da loro e senza nessuna influenza esterna. Vivere in costante  contatto con l’uomo li ha resi più docili dei fratelli francesi, e i cavalli del Delta del Po si sono ritagliati sulla costa ferrarese lo stesso ruolo di perfetto «accompagnatore ambientale» così bene assolto dai Camargue in patria. Ma perché chiamarli in modo diverso se, a ben guardare, sono sempre gli stessi cavalli? Perché, stando al regolamento francese, non possono essere considerati Camargue i cavalli nati al di fuori della zona di origine. Gli allevatori ferraresi allora, ben consci dell’importanza di un libro genealogico per il futuro del loro allevamento, nel 1996 hanno chiesto e ottenuto l’istituzione di un Registro Anagrafico regionale del cavallo che, dopo la creazione del proprio Libro Genealogico (custodito dall’APA di ferrara) è ufficialmente diventato il Cavallo Delta, derivato Camargue.

Le manades Sono gli allevamenti tradizionali della Camargue: formate da almeno quattro giumente in età fertile, devono stazionare tutto l’anno entro i confini della zona di origine della razza ed avere a disposizione un preciso numero di ettari per ogni capo di bestiame.  Il solo tipo di monta ammesso è quello in libertà, e solo i puledri nati in queste manade così ortodosse e marchiati a fuoco (quindi esaminati da una apposita commissione e giudicati idonei alla riproduzione) possono venire registrati come Camargue

Il Camargue – Classificato dal 2002 tra le razze francesi da sella ha una altezza che raramente supera i 145 cm.  al garrese e ne fa quindi, almeno per la Fei, un pony ma in Francia è considerato e semplicemente un cavallo piccolo. Caratterizzato da uno sviluppo tardivo (raggiunge la maturità verso i 7 anni), ha il dono di una longevità veramente notevole oltre che di una proverbiale resistenza fisica. Il mantello è sempre grigio nei soggetti adulti, ma i puledri nascono bai o morelli e schiariscono con l’età.  E’ l’unico equino capace di brucare anche le erbe o le alghe che crescono sotto il pelo dell’acqua, viene allevato secondo gli standard di un allevamento estensivo e si deve riprodurre in totale libertà, traendo la sua alimentazione esclusivamente dai pascoli: ancora oggi questi sono i punti fondamentali della sua selezione al fine di conservare intatta la rusticità della razza.

Come promesso, la sorpresa video: il trailer di un film con il meraviglioso Fernandel, Ulisse non deve morire.

La trama: Antonio, anziano stalliere in un paesino della Provenza, è particolarmente affezionato a Ulisse, un cavallo vecchio e malandato, il cui destino è ormai di venire dilaniato dalle corna di un toro nelle fasi iniziali di una corrida. Incaricato di consegnare il cavallo al picador Sancho, Antonio prende una diversa decisione: condurrà Ulisse alla Camargue, la terra dei cavalli selvaggi, dove, in piena libertà il vecchio quadrupede trascorrerà gli ultimi giorni della sua vita. Il lungo viaggio non è indenne da incidenti: Ulisse finisce ugualmente nelle mani di Sancho, ma Antonio riesce a sottrarlo all’ultimo momento alla sicura morte nell’arena. Ripresa la fuga, stalliere e cavallo giungono finalmente in piena Camargue, ma un violento temporale provoca in Ulisse una grave polmonite. Antonio assiste amorevolmente l’animale fino a ottenerne la completa guarigione. Allorché Ulisse si unisce felice a un branco di cavalli selvaggi, Antonio resta a contemplarlo soddisfatto. Il vecchio cavallo sembra comprendere che non rivedrà mai più l’amico stalliere e torna presso di lui per riceverne le ultime carezze.