Ghiaccio bollente in Coppa: cocktail Chimirri

Il campione azzurro è l’unico cavaliere italiano in attività ad aver vinto due volte la Coppa delle Nazioni di Roma, gara che se lo Csio non fosse stato cancellato sarebbe stata in calendario proprio oggi

Bruno Chimirri e Tower Mouche durante il giro d'onore al termine della Coppa delle Nazioni del 2018 a Piazza di Siena (ph. Massimo Argenziano)

Bologna, venerdì 29 maggio 2020 – Oggi sarebbe stato il giorno della Coppa delle Nazioni in Piazza di Siena. Le storie meravigliose dello sport: Bruno Chimirri è l’unico cavaliere ad aver vissuto da protagonista entrambe le ultime favolose vittorie dell’Italia, quella del 2017 e quella del 2018, per poi essere ancora nei cinque della squadra nel 2019 e scegliere volontariamente il ruolo di riserva. Il tutto sempre in sella a Tower Mouche.

Lei è l’unico cavaliere italiano in attività vincitore di due Coppe delle Nazioni in Piazza di Siena… Che pensieri le fa venire questo dato statistico?

«Beh, prima di tutto bisogna dire che sì, ne ho vinte due ma con risultati personali diametralmente opposti… ».

Sì: determinante e decisivo nel 2018, meno brillante nel 2017…

«Esatto. Ma bisogna capire che il nostro sport è fatto così: a volte organizzi tutto nel migliore dei modi e poi proprio nel momento del dunque qualcosa non funziona. Il nostro sport non è una scienza esatta, insomma. Quello che però è importante sottolineare è che il posto in Coppa delle Nazioni non lo regala nessuno: bisogna conquistarlo e guadagnarlo, quindi essere in squadra è di per sé un fatto di grande spessore, anche se talvolta non si riesce a dare il proprio contributo come si vorrebbe. Ma essere lì vuol dire aver fatto prima qualcosa di buono, vuol dire che prima qualcuno ha ritenuto che tu potessi fare bene tanto quanto gli altri. Principio che ovviamente vale per chiunque sia convocato in squadra».

Non solo lei è stato presente sia nel 2017 sia nel 2018, ma in entrambe le occasioni è stato schierato come quarto a partire dei nostri: una grandissima responsabilità!

«Sì è vero, ma anche in passato è accaduto… alle Olimpiadi di Atene e anche in altre occasioni… Non so perché sia successo così di frequente… ».

Forse perché lei dà ampie garanzie di tenuta nervosa?

«Mah… Io so come sono io, ma non posso sapere come sono gli altri dentro di loro. Io sento ovviamente l’emozione e il carico di responsabilità. Li sento eccome. Probabilmente li so controllare, forse riesco a fare in modo che emozione e responsabilità non mi distraggano dal montare meglio che posso. Probabilmente avendo fatto più volte il quarto sono allenato a questo ruolo: certo, a volte è andata bene e a volte male, ma di sicuro sono abituato».

Tra l’altro non si può dire che dipenda dalla predilezione di un tecnico in particolare, dato che sia Roberto Arioldi sia Duccio Bartalucci e prima ancora Hans Horn l’hanno utilizzata in questo modo…

«C’è una visione comune e concorde, evidentemente… !».

A proposito, tornando a Piazza di Siena: nel 2017 c.t. Roberto Arioldi, nel 2018 Duccio Bartalucci… C’è stata differenza?

«La differenza c’è stata, ma non dipendente dai nostri due eccellenti tecnici, due uomini straordinari che non hanno sbagliato una sola mossa. C’è stata perché siamo arrivati a queste due gare in situazioni e condizioni completamente diverse».

Partiamo dal 2017. Insieme a lei Lorenzo de Luca su Ensor de Litrange, Alberto Zorzi su Fair Light van het Heike e Piergiorgio Bucci su Casallo Z.

«La volevamo assolutamente vincere. Era un pensiero partito da lontano. La sera della finale del circuito di Coppa delle Nazioni a Barcellona nel 2016 mentre eravamo a cena ne abbiamo parlato… Lì in Spagna avevamo ottenuto il 4° posto. Ho detto a Roberto Arioldi: “Robi, l’anno prossimo a Roma si può fare, dobbiamo pianificare tutto fin da oggi… ce la possiamo fare”».

Lo sentiva, insomma.

«Sentivamo che sarebbe stato possibile, sì. Avevamo anche altre ottime carte da giocare, Alberto Zorzi per esempio che a Barcellona non c’era… In più avevamo cavalli forti, in fase ascendente, avevamo vinto la Coppa delle Nazioni a Dublino… Man mano che ci avvicinavamo a Roma si vedeva che i cavalli tenevano, saltavano benissimo, sempre competitivi».

Tuttavia, come dicevamo prima, la squadra ha effettivamente vinto però lei non ha ottenuto un buon risultato…

«Mi ricordo molto bene che il giovedì quando feci la gara di riscaldamento in vista dell’indomani mi resi conto che Tower non era al meglio della forma. Non avevo avuto quelle sensazioni positive che ti fanno dire sì, sta andando tutto bene. In effetti non avevo avuto il tempo di fare una gara prima di Roma, quella gara che il cavallo invece avrebbe avuto bisogno di fare… Ma a volte le cose vanno così, capita, qualche piccolo contrattempo può sempre nascere. Nonostante ciò, ero quasi sicuro che ce l’avremmo fatta con quel gruppo di cavalieri: avevamo davvero uno squadrone con Alberto Zorzi che aveva vinto dappertutto, con Lorenzo de Luca che continuava a stampare risultati settimanalmente… se gli avessero dato un triciclo avrebbe vinto anche con quello, con Piergiorgio Bucci uguale… ».

Quindi per lei saranno state situazioni un po’ contrastanti?

«La vittoria mi ha dato una gioia pazzesca, la prima vittoria dell’Italia a Roma dopo trentadue anni… figuriamoci! Però chiunque si fosse trovato al mio posto con la mia stessa fortissima voglia di far bene l’avrebbe vissuta come una sconfitta personale… Io vivo la squadra come se fosse la mia fidanzata e in quel momento non essere stato all’altezza degli altri e non aver dato il mio contributo mi è molto dispiaciuto. Sono stato felicissimo della vittoria, ma sentivo di non meritarla. Sentivo di aver meritato il posto in squadra per tutto quello che avevo fatto fino a lì: però sinceramente al momento del dunque non sono riuscito a dare il mio contributo».

Invece quella del 2018 con anche Giulia Martinengo Marquet su Verdine, Luca Marziani su Tokyo du Soleil ed Emanuele Gaudiano su Caspar è stata un trionfo totale: l’Italia ancora vittoriosa e lei l’uomo dell’ultima parola, quella che ha inferto il ko finale agli avversari, quella che ha messo in cassaforte il secondo successo consecutivo!

«La squadra del 2018 all’inizio sembrava addirittura più forte di quella del 2017. Io con Tower avevo vinto due Gran Premi del Toscana Tour ad Arezzo, Tokyo du Soleil con Luca Marziani sembrava un… marziano, c’erano tutti i cavalli del 2017 che sembravano funzionare al meglio. Invece man mano che ci avvicinavamo a Piazza di Siena succedeva qualcosa: la cavalla di Alberto Zorzi, Fair Light van het Heike, non si sarebbe ripresa in tempo, Lorenzo de Luca che avrebbe avuto addirittura due cavalli, cioè Armitages Boy ed Ensor de Litrange, non ha potuto far parte del gruppo con nessuno dei due… Noi eravamo carichi ma anche un po’ demoralizzati per tutte queste notizie negative che ci arrivavano e che certamente ci indebolivano. Alla fine siamo scesi in campo con una squadra che… insomma, non è che potevamo dire adesso provate a batterci perché tanto noi vinciamo di sicuro, tutt’altro: Svizzera e Stati Uniti erano squadre sulla carta di certo più forti di noi. Abbiamo quindi affrontato quella gara consapevoli di dover mantenere la calma, di non perdere la carica, di dover tenere duro, di essere capaci di reggere qualunque tipo di situazione. Una situazione molto diversa da quella del 2017».

Il suo ultimo salto sull’ultimo ostacolo della seconda manche rimarrà nella memoria storica del nostro sport…

«Io quel percorso me lo ricordo distanza per distanza e sensazione per sensazione su ogni ostacolo che ho saltato… !».

Appena lei e Tower vi siete ricevuti da quell’ultimo ostacolo dando così la vittoria all’Italia, Luca Marziani è saltato in campo correndo impazzito dalla gioia!

«Una scena che rimarrà nella storia. Una scena stupenda».

Qualche giorno fa lei ha pubblicato un bellissimo pensiero rivolto al tecnico azzurro Duccio Bartalucci: “Abbiamo condiviso vent’anni di sport, abbiamo vinto e abbiamo perso. Mi ha aiutato a tenere le redini in momenti di fuoco, mi ha insegnato a fare il primo di una squadra come l’ultimo, ma soprattutto mi ha insegnato a fare il quinto”. Insegnato a fare il quinto: è un pensiero che contiene un significato enorme!

«Anche io all’inizio non riuscivo a capirlo, questo significato: serve un po’ di esperienza, per capirlo. E allora si scopre che è giusto ricoprire i diversi ruoli che la squadra ti fa vivere. Ed è giusto non essere sempre nei primi quattro, anche se hai vinto gare importanti, anche se hai fatto le Olimpiadi, perché ci sono dei momenti in cui le condizioni dicono che è preferibile fare in un modo invece che in un altro, e bisogna saperlo fare. E bisogna saperlo fare cercando di dare comunque il proprio contributo al meglio anche come quinto, è una cosa molto importante. Sapere che in tribuna c’è una persona che non è contenta di essere lì, e che magari vive l’essere lì con acidità e risentimento… ecco, questo crea un clima che non va bene, non va bene per i componenti della squadra, per il tecnico, per l’entourage, per tutto l’ambiente. Ci sono dei momenti in cui si deve saper stare in panchina, puoi essere anche Ronaldo ma anche Ronaldo ogni tanto è andato in panchina. Il ruolo del quinto deve comunque essere quello del trascinatore, del motivatore, di chi si mette a disposizione di tutti cercando di dare un contributo, invece che stare seduto in tribuna a vedere se gli altri sbagliano di più o di meno».

Tutto vero, ovviamente. Non sempre così facile da mettere in pratica…

«Sì, certo, per questo dico che ci vuole un po’ di esperienza per arrivarci. Esperienza intesa proprio come vita vissuta. Il punto è che ogni attimo, ogni frangente, ogni singolo istante durante l’anno può creare un tassello positivo per la volta successiva. Qualunque cosa che uno fa bene crea un insegnamento per un altro, crea un precedente, un esempio. Quando si vivono queste gare di altissimo livello si arriva davvero al limite di tutto: e basta un niente, basta una sfumatura, basta una gocciolina in più per farti venire il dubbio o al contrario farti aumentare il coraggio. Per questo bisogna unirsi all’interno della squadra: ognuno deve impegnarsi per fare in modo che i compagni si sentano forti e determinanti. Questa è la cosa più importante».

Ecco, il limite di tutto: alla vigilia di gare di questo livello lei come fa a concentrarsi?

«Con un sistema di verifica. Ripasso mentalmente tutte le cose che ho fatto per arrivare fino a quel punto, cercando di controllare se ho fatto tutto bene o se invece c’è stato qualche problema: quindi preparazione atletica sia mia sia del mio cavallo, ginnastica, stretching, veterinaria, il concorso piccolo due settimane prima in cui aver provato determinate sensazioni… Cerco di assicurarmi mentalmente di aver fatto veramente tutto quello che mi ero proposto di fare per arrivare bene al momento del dunque, in modo da non avere rimorsi o rimpianti. E poi comincio a ragionare dicendo devo montare in questo modo perché mi ricordo che due settimane fa montando così ho avuto quella sensazione positiva davanti alla gabbia, cinque settimane fa ho avuto quella sensazione positiva davanti alla riviera facendola in quel dato modo… mi ripeto insomma come devo cercare di montare per rimettere assieme tutte quelle buone sensazioni che mi avevano fatto arrivare bene fino a lì. Così come mi devo ricordare di fare il campo prova nel tal modo perché non devo stancare troppo il mio cavallo, perché devo lasciarlo con un buon morale, non fare l’ultimo verticale perché non serve… ecco, tutte queste cose me le devo ricordare e ripetere, ripetere e ripetere in modo da arrivare al momento clou con il mio piano fatto di sensazioni positive».

La notte prima di quelle due Coppe delle Nazioni ha dormito normalmente?

«La notte in cui non ho dormito è stata quella dopo la vittoria! Perché si è festeggiato, ovviamente… Poi il secondo anno perché l’emozione è stata talmente forte che l’adrenalina andava a mille. Ho dormito di tre ore in tre ore continuando a svegliarmi in preda all’eccitazione… ».

Quelle due vittorie hanno avuto un valore di molto superiore a quello di un ‘normale’ primo posto in una Coppa delle Nazioni…

«Sì, certo, anche se perfino io stesso ora come ora non riesco a individuarne la reale dimensione… Cioè, so di aver vinto due volte la Coppa, però mi sembra ormai una realtà che fa parte della mia vita come qualcosa di acquisito, sedimentato… ».

E in più lei è l’unico tra i cavalieri italiani in attività ad averla vinta due volte… Ci pensa ogni tanto?

«Per me una cosa bellissima a cui penso, sì. Sì, è bellissima, ci penso, ma ci penso non troppo: adesso quello a cui bisogna davvero molto pensare è vincere la prossima!».