Diletta: storia di una passione

Tra gli Young Writers di Cavallo Magazine 18+ il racconto di Diletta De Majo ha conquistato il favore della giuria. Per la scrittura, per il fluire della narrazione e, naturalmente, per la passione che ha saputo raccontare così bene. Davvero una bella storia da leggere e condividere.

Bologna, 11 febbraio 2023 – Tra gli Young Writers di Cavallo Magazine 18+ il racconto di Diletta De Majo ha conquistato il favore della giuria. Per la scrittura, per il fluire della narrazione e, naturalmente, per la passione che ha saputo raccontare così bene. Davvero una bella storia da leggere e condividere.

 

Da un cavallo a dondolo a Senofonte – Storia di una passione

Questa non è solo una storia di passione, ma di vita, perché in fondo attraverso ciò che intimamente ci appassiona si esprime la nostra stessa identità. Come un sinuoso corso d’acqua, che a volte scompare alla vista ma prosegue tenacemente il suo cammino sotterraneo per tornare a sgorgare puro e vivifico, così l’amore per i cavalli ha attraversato le regioni, ora pianeggianti ora scoscese, della mia vicenda esistenziale, contribuendo a definirne il paesaggio.

Nel racconto della memoria, che non sempre registra i fatti per come sono realmente accaduti, o meglio, capita che attribuisca loro maggiore o minore valore trasformandoli in momenti salienti, snodi significativi, tutto ebbe inizio in un pomeriggio soleggiato sulla veranda di casa mia. Avrò avuto circa cinque anni e alla domanda di mia madre, che mi chiedeva se fossi contenta all’idea che presto avrei cominciato a frequentare la scuola elementare, risposi: «Mamma, io voglio andare alla scuola del cavallo!». Quella fu la mia prima dichiarazione d’amore, un amore infantile, forse incompreso dagli adulti che mi circondavano, ma sincero, e, a quanto pare, duraturo. Lo nutrivo con cartoni animati e film e, dopo aver superato lo scoglio delle interminabili paginette di letterine dell’alfabeto, anche con libri e periodici. Rammento ancora quanto rimasi affascinata dalle immagini, scovate tra le pagine di una rivista, di un magnifico itinerario a cavallo sull’Isola d’Elba, che da allora, e per un imbarazzante lasso di tempo, è rimasta nel mio immaginario l’isola dei cavalli, scalzati solo, molto dopo, da Napoleone Bonaparte. Alla fine, i miei continui piagnistei ebbero la meglio sia sulla fobia di mia madre sia sull’allergia di mio padre, e così ogni tanto riuscivo a farmi accompagnare in un maneggio non lontano da casa. Del tempo trascorso lì conservo soprattutto il ricordo dell’entusiasmo frizzantino che attraversava il mio corpo al solo stare vicino ai cavalli, bastava la loro presenza a farmi sentire pienamente felice. In quel maneggio, che rappresentava un mio modo di essere, ottenni persino di festeggiare il mio settimo compleanno. Guardando le fotografie di quell’occasione, la mia espressione appagata, con le sopracciglia stranamente rilassate e non inarcate a conferirmi la consueta aria vagamente triste, rivela che trovarmi in un posto per me così importante era il più bel regalo che potessi ricevere. In quello sguardo riconosco l’autentica gioia che mi deriva dal sentirmi considerata nelle mie passioni e nei miei desideri, e dunque amata per come sono. All’epoca sognavo di avere un cavallo arabo col manto nero e la stella bianca in fronte, e di prendermene cura; certo, non vedevo l’ora anche di imparare a montare, per poter cavalcare non più solo attraverso le pianure della fantasia rese rigogliose dalla mia passione. Tuttavia, fu proprio a questo riguardo che la storia prese una brutta piega: «Sei ancora troppo piccola, ne riparliamo tra qualche anno», suonava più o meno così la sentenza di condanna del principale e più vivo desiderio della mia infanzia. Nonostante quell’avvilente prospettiva – un po’ perché nella percezione dei bambini il tempo passa molto più lentamente, ma soprattutto perché delusa dal modo sbrigativo con cui una faccenda a me tanto cara era stata archiviata -, in un primo periodo cercai di persistere nel mio proposito.

Col tempo, però, il pensiero divenne in me sempre più sopito; si avvicinava il momento in cui il mio corso d’acqua interiore si sarebbe interrato per parecchi anni. Iniziava una fase della mia vita nella quale Apollo, rifiutando qualsiasi interferenza da parte di Dioniso, si impose come indiscusso auriga, guidando, probabilmente con eccessivo rigore, il carro della mia esistenza attraverso gli studi classici prima liceali e poi universitari. E mentre il paesaggio si inaridiva, sempre più mi assaliva una sensazione di smarrimento. Durante il tragitto casa-biblioteca, quando i miei piedi meccanicamente avanzavano sordi in direzioni note e detestate, il respiro si faceva corto, la bocca si seccava, e un sudore freddo accompagnava il riscuotersi della mia coscienza che si scopriva alla deriva.

È stato l’amore per i cavalli a riportarmi alla vita dopo un periodo di buio: facendo riemergere una passione che mi appartiene profondamente ho potuto ritrovare me stessa e ricucire lo strappo che si era creato tra la mia vita e la mia identità. La prima volta che, dopo tanto tempo, ho allungato teneramente la mano per accarezzare un cavallo ho ricordato l’emozione istintiva di quella bambina sensibile e appassionata che ero. Mentre il profumo di fieno mi inondava i polmoni, il mio torpido udito si risvegliava ascoltando i lievi sbuffi del suo respiro, e osservandone estasiata l’elegante fisionomia, il muso dolce e lo sguardo loquace, un sottile velo, non più di apatia bensì di commozione, si stendeva sui miei occhi. Avevo dimenticato il piacere di sentire scorrere in me l’energia vitale procuratami dal contatto con i cavalli, ma da quando l’ho riassaporato il mio cuore scalpita nell’attesa di andare al maneggio ogniqualvolta è possibile, perché ritagliarmi del tempo per coltivare la mia grande passione è una specie di rituale benefico. Mi piace arrivare presto la mattina, avvicinarmi al box o al paddock chiamando il cavallo per nome e sorridere vedendo spuntare la sua testa incuriosita; spesso porto con me una carota o una mela e mi trattengo sulla soglia, godendomi la gioia che quel semplice gesto di dar da mangiare ad un cavallo è in grado di darmi. Poiché desidero ricambiare il benessere che mi dona il mio compagno di lezione o di passeggiata, nel tempo che impiego a prepararlo, oltre ad apprendere a usare nel modo più corretto gli strumenti necessari per la sua cura, mi dedico ad osservare la sua attitudine nei miei confronti e le sue reazioni ai miei movimenti. Ben presto, infatti, ho realizzato che ogni cavallo ha una sua personalità e la più grande soddisfazione sta per me nell’imparare a conoscere il carattere di ognuno, e a comunicare nella maniera più efficace e funzionale all’istaurazione di una relazione empatica e positiva. In proposito, conciliando gli studi universitari con la mia passione equestre, ho letto quello che è considerato uno dei primi trattati di equitazione, scritto in vecchiaia da Senofonte, storico greco del V-IV sec. a.C. ma anche uomo di cavalli, e intitolato Περὶ ἱππικῆς, letteralmente “Sull’ippica”. Considerando la distanza storica e antropologica che separa il lettore moderno dall’autore di questa operetta, sono rimasta colpita non solo dalla puntualità delle indicazioni impartite per la gestione dei cavalli, ma soprattutto dalla raccomandazione di preferire sempre un approccio ‘gentile’ e incentrato su un loro coinvolgimento attivo, piuttosto che passivo, nel lavoro svolto insieme all’uomo. In effetti, cresce in me la convinzione che montare in sella equivalga ad entrare in un’altra dimensione, attraverso l’equitazione non si impara solo una tecnica di monta, bensì a cambiare prospettiva e ad esercitarsi nell’arte di percepire la realtà circostante non più come singolo individuo ma come binomio perfettamente integrato; e così a volte, durante le passeggiate in campagna o al mare, mi ritrovo a sperare che anche il mondo contemporaneo, risvegliandosi dall’insostenibile illusione di onnipotenza che sempre più lo ha avviluppato, riscopra la bellezza di un’esistenza in simbiosi con la natura.

Mentre scrivo queste pagine rigiro fra le dita un vecchio cavalluccio a dondolo, che originariamente era un addobbo natalizio, successivamente appeso alla maniglia dell’armadio della mia cameretta, e poi migrato con me nelle città nelle quali ho soggiornato per motivi di studio. È un oggetto prezioso, che mi ricorda un desiderio, una passione forte che ho avuto e che ho ancora, e guardandolo immagino di galoppare, come se volassi, verso i nuovi, verdi orizzonti della mia vita.

 

di Diletta De Majo