Quelli come noi, adesso, in Ucraina

Quando le cose brutte e terribili sono troppo grandi, abbiamo bisogno di ridurle al minimo comun denominatore per capirle: come la guerra in Ucraina, ad esempio

I cavalli liberati da una ragazza ucraina nei giorni scorsi, da Facebook
Bologna, 6 marzo 2022 – Così terribile che non pensavamo mai di doverla vedere durante la nostra vita.

Come la guerra in Ucraina, ad esempio.

Perché noi umani siamo programmati così: generalmente, quando in buone condizioni generali di comfort, facciamo molta fatica a credere che le cose brutte esistano.

Siamo bravissimi a circoscriverle: capitano quasi sempre ad altre persone, diverse da noi, che abitano lontano lontano e ci fanno pena, certo, ma non ci sentiamo in pericolo.

Generalmente.

Perché poi succedono cose enormi, che sfuggono a qualunque tipo di previsione: sorprendono per il solo fatto di esistere, perché noi pensavamo che non sarebbero mai più successe.

Per lo meno non così enormi, e soprattutto non così vicine a noi.

Cominciamo a spaventarci soltanto quando tocchiamo con mano, in qualche modo, le conseguenze di quella cosa terribile.

Che allora diventa improvvisamente così gigantesca che non riusciamo nemmeno a capirla proprio per la sua terribile immensità.

Tipo la guerra in Ucraina, per esempio: che sembrava impossibile, eppure è lì che diventa ogni giorno meno controllabile, ogni giorno più vicina a noi come conseguenze.

Forse quelli che l’hanno capita meglio di tutti sono i bambini che, nella loro immensa saggezza, hanno pensato di scrivere lettere ai bambini come loro e che abitano nei posti dove adesso c’è la guerra.

Chissà se questi bambini toscani riusciranno a far leggere le loro lettere a quegli amici ucraini che non conoscono: in tutti i modi, a noi sembra molto bello che abbiano sentito la necessità di farlo.

Una necessità che molti adulti non hanno, forse perché gli adulti a volte non ragionano per niente (altrimenti le guerre non ci sarebbero) e altre volte ragionano troppo.

Forse a volte bisognerebbe proprio fare come i bambini, sentire e ascoltarsi più che ragionare, ma come si fa?

Magari provando a fare come loro, cioè immedesimandoci nei panni di chi è come noi, una persona qualunque come noi che ama i cavalli e che però abita in Ucraina.

Visto che noi adulti abbiamo poca fantasia, serve un aiuto: tipo questi spezzoni di video girati da una ragazza ucraina.

Che sta portando a piedi i cavalli del suo maneggio fuori città tra bombe ed esplosioni.

Sono cavalli vecchiotti, un po’ magri, proprio uguali a tantissimi cavalli da scuola delle nostre parti: fiduciosi, abituati a fare tremila cose con tutti i bambini e gli allievi della scuola.

Cavalli di quelli che ti seguono ovunque perché la maggior parte delle volte succede sempre qualcosa di divertente, e poi c’è sempre uno zuccherino quando hanno fatto i bravi.

Cavalli abituati alle carezze, magari con qualche acciacco ma ancora pieni di buona volontà; cavalli proprio come i nostri, uguali uguali.

E che seguono chi li fa passare su  ponti, strade, passaggi a livello verso quei boschi che magari annusavano da anni stando nei loro box.

Arrivati al limite della città, i cavalli vengono liberati, spinti ad allontanarsi dalle persone che hanno vissuto con loro ogni giorno sino ad ora.

Ecco, pensiamo a cosa sentiremmo noi nella stessa situazione; immaginiamo di andare in scuderia, prendere il nostro cavallo per la capezza e portarlo lontano da casa e poi lasciarlo andare, o meglio scacciarlo via perché quello sicuro che ci seguirebbe per tornare a casa.

E che non sappiamo se lo rivedremo mai, e che  non saremo lì con lui a fargli passare la paura quando ne avrà, o a coccolarlo quando ne avrà bisogno o voglia.

Pensiamo che forse piacerebbe anche a noi avere la possibilità di scappare semplicemente nel bosco, scappare lontano da tutte quelle bombe e quella paura e non avere bisogno altro che di erba e un po’ d’acqua per cavarcela.

E invece dobbiamo guardare i nostri cavalli che galoppano via, e poi girarci e tornare indietro e portare con noi il vuoto che lasciano quei cavalli, che non sappiamo se a primavera ritroveremo vivi.

Che in realtà  non sappiamo se a primavera saremo vivi noi: e magari i cavalli ogni tanto passeranno di qui, magari si ricorderanno la strada della scuderia e guarderanno da quella parte annusando l’aria, con quella faccia che fanno i cavalli quando ricordano qualcosa, o qualcuno.

Chissà se ci saremo ancora, chissà se il loro ricordo di noi sarà bello, piacevole, se ricorderanno le nostre carezze.

Chissà.