Quando un cavallo termina la propria carriera sportiva, il suo futuro è spesso un’incognita. Ma in alcune zone d’Italia sta prendendo forma un movimento silenzioso che offre a questi animali una seconda possibilità. È un cambiamento culturale che unisce agricoltura sociale, benessere equino e nuove forme di relazione tra uomo e animale.
Uno dei centri tra i più emblematici di questa trasformazione si trova a Bussolengo, in provincia di Verona.
Il luogo dove i cavalli smettono di gareggiare, ma non di essere amati
Qui, tra i filari di pesche e mele e ciliegi dell’azienda agricola Pescami di Giovanni Adami (presidente di Coldiretti Bussolengo) cavalli già campioni o compagni di lavoro fisico trovano una nuova casa quando l’età o la salute li pone fuori dal mondo dell’equitazione. Blue, un appaloosa affetto da cecità; Nika, una frisona che gli fa da guida; Zuz, figlio del leggendario Varenne; Mylord e Cassù e Peppy che si godono la pensione e la vecchiaia: sono loro i primi “ospiti” ad aver inaugurato, quasi per caso, un percorso che oggi intreccia attività didattica, agricoltura sociale e ippoterapia.
Lo stesso Adami racconta che la scintilla è nata una notte, mentre attendeva l’irrigazione dei campi. La presenza calma dei tre cavalli gli trasmise una serenità che non si aspettava. Comprendendo che quella sensazione poteva diventare un’occasione anche per altri, ha trasformato l’azienda di famiglia in un luogo aperto a scuole, anziani e persone fragili, avviando collaborazioni con l’ospedale di Verona e dando vita a un punto di riferimento locale per coltivare la relazione uomo–cavallo.
Un movimento che supera i confini del Veneto
Sebbene il progetto di Bussolengo sia particolarmente significativo, non è un caso isolato. Negli ultimi anni, infatti, diverse regioni italiane hanno visto nascere spazi simili, spesso creati senza clamore, ma con una filosofia comune: accogliere cavalli rifiutati dal mondo delle competizioni e restituire loro una vita degna, offrendo allo stesso tempo un valore educativo e terapeutico alle comunità.
In Toscana, ad esempio, il centro Italian Horse Protection ha dato visibilità nazionale al tema del recupero equino. Qui gli animali confiscati o maltrattati vengono accolti in ampi spazi naturali, e il lavoro quotidiano dei volontari ha contribuito a diffondere una cultura del cavallo basata sul rispetto e non sulla performance.
Più a nord, nel Mantovano, realtà come Equinozio hanno costruito percorsi che partono dal salvataggio di cavalli destinati al macello per poi integrarli in attività educative rivolte a giovani e famiglie. In questi contesti il cavallo non è un mezzo, ma un compagno che rispetta i tempi, di osservazione e relazione, spesso fondamentale per chi vive situazioni di fragilità emotiva.
In Emilia-Romagna, fattorie come La Rebecca ospitano cavalli anziani o con disabilità accanto ad altri animali salvati, facendo della diversità una risorsa pedagogica. Sono luoghi dove bambini, scuole e associazioni entrano in contatto con un modo di vivere la natura più responsabile e consapevole.
Anche vicino ai Castelli Romani il cavallo ha trovato nuovi ruoli: alcune fattorie sociali del territorio accolgono gli equini riformati e li inseriscono in progetti educativi e di inclusione, spesso affiancando ragazzi con disabilità o difficoltà emotive. Qui la relazione non passa necessariamente dalla sella, ma dal gesto del prendersi cura, del grooming, della condivisione di un rapporto, senza la frenesia importa dalla società odierna.
E ancora, nel Nord Italia ci sono progetti che, pur non rientrando nell’ippoterapia tradizionale, mettono al centro il cavallo salvato come guida nella meditazione, nella crescita personale o nei percorsi di benessere psicofisico. In alcune zone del bergamasco, perfino veri e propri “rifugi per cavalli anziani” stanno diventando punti di incontro per famiglie, educatori e appassionati, dimostrando come un animale non più idoneo al lavoro possa reinventarsi come prezioso alleato umano.
Tutte queste realtà, pur molto diverse tra loro, condividono una stessa convinzione: la vita di un cavallo non finisce quando finisce la sua carriera.
Il grande nodo: un quadro normativo che non esiste
Purtroppo un aspetto accomuna quasi tutte queste esperienze: la mancanza di una normativa che riconosca ufficialmente il ruolo dei cavalli a fine carriera nelle aziende agricole e nei centri sociali. In Italia, infatti, l’equino non è considerato né animale agricolo, né animale d’affezione (anzi spesso inteso come bene di lusso), fondamentalmente non è classificato dal punto di vista normativo il che espone gli allevatori a costi ingenti e frena la nascita di nuovi progetti di accoglienza.
La discussione si è accesa anche durante la da poco trascorsa Fieracavalli, e in vari convegni di settore, dove istituzioni e associazioni agricole hanno chiesto un aggiornamento legislativo che permetta di salvare più cavalli dal macello e valorizzarli in percorsi terapeutici ed educativi.
Un nuovo impiego per il cavallo a fine carriera
Ciò che Bussolengo come altre oasi italiane evidenziano è un approccio innovativo in cui il cavallo non è più solo atleta, mezzo o bene economico, ma attore sociale: un compagno silenzioso capace di generare calma, facilitare relazioni, aiutare persone fragili e insegnare il rispetto attraverso la propria fragilità.
È un nuovo paradigma, che parla di empatia, di reciprocità e di un modo diverso di intendere il benessere animale. E forse rappresenta il passo successivo dell’intero settore equestre: riconoscere il valore del cavallo non solo quando compete, ma anche quando si ferma.
Fonti principali:
www.corrieredelveneto.corriere.it
www.ilbacodaseta.org
























